di
Marco Imarisio

Il tappeto rosso di Trump, i mano nella mano in Asia. Così Vladimir è tornato al centro della scena internazionale. E sull’Ucraina gongola: adesso la Casa Bianca mi ascolta

Com’è lontana l’Alaska. Forse, non è mai stata neppure vicina. Mentre la Cina, invece. «È la nostra bacchetta-salvezza», un modo di dire russo, nella contrapposizione con gli Usa, mentre «l’attuale viaggio di Putin ha lo scopo di rafforzare la convinzione della gente che il loro Paese non sta invadendo la fraterna Ucraina, ma sta combattendo nel Donbass per la propria indipendenza contro il subdolo Occidente guidato dagli Stati Uniti».
Così la vedono in grande maggioranza a Mosca, almeno secondo il sondaggio fatto prima della partenza di Vladimir Putin per Pechino e dintorni dal centro Levada, che si fregia del titolo di unico istituto sociologico indipendente. Se questa è la vox populi, l’obiettivo principale del Cremlino è stato raggiunto.

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Altri tempi
Appena tre anni fa, nel settembre del 2022, al vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai che si tenne a Samarcanda, in Uzbekistan, Putin era un uomo solo e isolato. Xi Jinping si dimostrò molto freddo nei confronti della guerra avviata in Ucraina, e il presidente russo bollò il bilaterale con il pari grado cinese come «normale», altro che i «legami più stretti che mai» di oggi. Il primo ministro indiano Modi fu invece apertamente ostile. «Questa non è un’epoca di guerra» disse. Massimo dello scorno, per la prima volta Putin si trovò a digerire la medicina che di solito infligge ai rappresentanti di alleati minori come Uzbekistan e Kazakhistan: costretto ad aspettare per decine di minuti che la controparte si presentasse. Tutto mentre le truppe ucraine si riprendevano Kherson, ottenendo quella che rimane la loro vittoria più importante di questo conflitto.

Il mondo è cambiato in fretta. L’attitudine verso la Russia e il suo leader hanno subito una brusca accelerazione soprattutto nelle ultime settimane, grazie alla geniale trovata di Donald Trump che ha regalato a Putin una ribalta internazionale insperata. Ma lo storico incontro di Anchorage si è fondato su un malinteso. Per Trump, non si capisce bene su quali basi, era l’occasione per risolvere la questione ucraina e giungere all’agognato premio Nobel per la Pace. Per Putin, era invece una opportunità per metterla da parte e riguadagnare una posizione preminente sul palco geopolitico, da giocarsi in quello che ha sempre continuato a considerare come il suo nuovo habitat naturale, la «Maggioranza globale», che in questi giorni lo ha accolto con tutti gli onori.

Schieramenti
La scelta di campo non è mai stata in dubbio. Né prima né dopo l’incontro con Trump. Putin trascorse la vigilia della sua partenza per Anchorage al telefono con i leader del «Sud globale» per tranquillizzarli sulle sue intenzioni. All’elenco non mancava nessuno: Cina (una lunga conversazione con Xi), India (due volte), Sudafrica, Emirati Arabi, Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan, Brasile, Corea del Nord. E la prima cosa che fece una volta rientrato al Cremlino fu di metterli al corrente sui dettagli dell’accaduto. Addirittura, corrono voci su una certa irritazione di Putin con i funzionari del ministero degli Esteri che hanno preparato il viaggio cinese, perché a suo parere la copertura mediatica nei giorni precedenti era troppo concentrata sulla cooperazione Mosca-Pechino nel settore energetico, mentre lo scopo di Putin era quello di dimostrare all’Occidente collettivo che non domina più nel mondo. E che ci sono nuovi/vecchi referenti, pienamente legittimati a guidare il nuovo ordine. Il messaggio è stato subito ricevuto. «La nuova Yalta c’è appena stata, ma con Xi e Putin, e senza Trump» sintetizza Tsargrad, il sito di riferimento degli ultranazionalisti.

Le mani intrecciate a quelle di Modi, gli abbracci con Xi, la lunga coda di presidenti e primi ministri desiderosi di un faccia a faccia con lui, dimostrano che il ghiaccio di tre anni fa si è ormai sciolto. Come se l’invasione dell’Ucraina fosse stata derubricata a semplice incidente di percorso che non impedisce alla Russia di stringere alleanze e affari. Esiste, ma per colpa dell’Occidente collettivo e cattivo. Ieri Putin ha potuto infatti affermare che la nuova amministrazione americana «ci sta ascoltando» e che con Trump esiste «una comprensione reciproca», per poi aggiungere di non avere «mai detto no all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea». Dopo aver detto che esiste la possibilità di «trovare un consenso» sulle garanzie di sicurezza, ha poi liquidato come «frutto di provocazione o di totale incompetenza» le ipotesi di un attacco russo all’Europa.

Timore dell’asimmetria

Esiste però un effetto collaterale di tanta ritrovata centralità, evidenziato proprio dall’istituto Levada. I connazionali di Putin sono convinti del fatto che per Pechino il risultato ideale è una Russia abbastanza forte per opporsi all’Occidente ma abbastanza debole per restare nell’orbita cinese. Questa condizione di relazioni asimmetriche è vista da molti con preoccupazione, ed esiste la paura di essere troppo dipendenti dal vicino più forte e più ricco, come risulta dai recenti sondaggi. Il timore di una subalternità alla Cina si sposa con quello della crisi. I media parlano apertamente del rischio di stagflazione: crescita bassa della produzione, prezzi in rapida crescita, tenore di vita in forte calo. «È chiaro che il nostro periodo di boom economico-militare è terminato» osa scrivere il quotidiano Kommersant. Ma per la Russia come l’immagina il Cremlino, il ritorno dall’isolamento a riveder le stelle della ribalta internazionale, è come la salute. Quando c’è, basta quella. Almeno finché dura.

3 settembre 2025 ( modifica il 3 settembre 2025 | 07:30)