Raz Degan ha compiuto 57 anni il 25 agosto, ma conserva quello spirito ribelle e nomade che lo accompagna da sempre. La sua vita oggi è lontana dai riflettori, nella Valle d’Itria, dove ha scelto di abitare (in un trullo): «Qui mi sento molto libero, cammino scalzo: è il mio modo per restare con i piedi per terra. Non ho mai smesso di essere me stesso: a gennaio mi è capitato di volare in India per il Kumbh Mela, riprendendo le morti della calca, e poi dopo poche ore salire su un aereo per andare su un red carpet», racconta al Corriere. Nonostante il ritiro dalla vita mondana, Degan continua a essere una star: «Sono ancora abbastanza riconosciuto quando entro in un supermercato…».
Accanto a lui, oggi, c’è la compagna Cindy Stuart. Alla domanda se desideri sposarla, la risposta è secca (e qualcuno coglierà il riferimento al celeberrimo spot dell’amaro Jägermeister del 1995): «Sono solo fatti miei… Anzi, nostri».
Il cinema resta un amore mai sopito. Raz Degan ricorda i grandi incontri: «Anthony Hopkins e Jessica Lange, in Titus: straordinari. Lui arrivava dalla scuola inglese: scherzava con tutti, all’epoca fumava, e poi si trasformava nel secondo in cui doveva andare in scena. Lei, invece, era tutta Metodo Stanislavskij: doveva vivere la parte, soffrire, come se una figlia le fosse morta sul serio». E sui registi: «Sempre per antitesi, due esempi di talento mostruoso: Oliver Stone ed Ermanno Olmi. Uno costruiva le scene come un generale, Ermanno creava la magia rubando le immagini».
Oggi non ha più nemmeno la televisione a casa. Ma non ha abbandonato la recitazione, «un mestiere che porto dentro da sempre. Se arriverà il progetto giusto, sono pronto a una nuova avventura. Intanto mi vedrete in un cameo nella serie Ligas su Sky». E intanto lavora all’autobiografia: «Bisogna che mi sbrighi a finirla, altrimenti non posso partire per il prossimo viaggio, lungo la Ruta 40, dalla Bolivia alla Terra del Fuoco».
Degan non si sottrae a un commento sulla guerra in Medio Oriente: «Questa guerra deve finire. Non esiste alcuna vittoria quando perdi un figlio, o quando non sai se potrai mai riabbracciarlo. Il dolore delle madri non ha bandiere: che sia sotto le macerie o dentro un bunker. È tutto disumano».
La sua ultima sfida è quella dei digiuni collettivi, un’esperienza che ha voluto condividere sui social. «Arrivavo da 5 anni di lavoro totalizzante, è stato il mio modo per purificarmi e ritrovare le energie», racconta ricordando il digiuno più estremo, di 18 giorni, dopo il documentario The Last Shaman. Ad agosto ha lanciato su Instagram un’iniziativa di 48 ore di digiuno: «Si sono iscritti quasi in tremila, oltre 200 hanno partecipato agli incontri live quotidiani». E non era un gioco improvvisato: «Per scongiurare questo rischio ci hanno supportato diversi specialisti: il medico Salvatore Simeone, autore del Digiuno felice, lo psicologo Elton Kazanxhi, il cardiologo Paolo Diego L’Angiocola, e il ricercatore indipendente Fabio Marchesi. I live erano uno spazio per fare domande a me e al mio team e condividere le esperienze. Il digiuno è diventato così una esperienza online di crescita e benessere».
Degan non nasconde l’entusiasmo: «A settembre ne organizzerò un altro: la forza del gruppo è potentissima». E spiega il senso profondo di questa pratica: «Il digiuno consapevole è un’opportunità per creare silenzio dentro la tempesta continua di immagini e informazioni che ci travolge. È come riavviare il proprio sistema operativo: un reset che ci permette di uscire dal pilota automatico e tornare a guidare in manuale. Non è una gara di resistenza, ma un esercizio per togliere il superfluo e ritrovare respiro e lucidità. Così persino una mela, mangiata senza distrazioni, diventa un’esperienza di presenza e di libertà».