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Poi arrivavano le sette di sera e in molte abitazioni la richiesta era esclusivamente una: “Metti su Rete 4”. A sintonizzarsi sul Tg4 erano soprattutto avversari, nemici, gente che quel telegiornale lo detestava. Basterebbe questo per raccontare Emilio Fede, attrattore come pochi, capace di trasformare il suo piccolo notiziario in un vasto palcoscenico quotidiano.

Parliamoci chiaro: nessuno lo cercava per informarsi. La curiosità stava tutta in ciò che avrebbe detto e come lo avrebbe detto, magari dopo uno scivolone o una sconfitta elettorale di Berlusconi.

Il suo Tg4 fu un caso più unico che raro e smise di essere tale quando venne normalizzato, dopo il doloroso divorzio del 2012. Perché Fede era il sole, la stella lucente che ti irradiava a prescindere da come la pensassi.

Iper-partigiano, schieratissimo e al limite della macchietta, Emilio era ipnotico

Iper-partigiano, schieratissimo e al limite della macchietta, Emilio era ipnotico, oltre ad essere munito di un talento straordinario. Conduceva in piedi, da uno studio privo di scenografia, con il solo videowall alle spalle chiamato a mandare le foto dei personaggi di cui si stava discutendo. Così facendo, Berlusconi appariva sempre sorridente e ringiovanito, mentre Prodi in pose orribili, puntualmente imbronciato.

Poco importava, perché il centro del mondo era lui, con il suo sguardo, la sua mimica, le sue pause e i nomi dei rivali astutamente sbagliati e storpiati. Come quando ai tempi del G8 di Genova i contestatori Agnoletto e Casarini vennero ribattezzati “Agnolotto” e “Casareccio”.

Gli scontri con Nanni Moretti e Roberto Benigni

Nel 2002 Nanni Moretti dal palco di piazza Navona lo definì “squadrista che picchia in testa alle persone che guardano la tv”. Il regista si giustificò affermando che si trattava di “una frase metaforica” e Fede, da eccellente uomo di spettacolo qual era, imbastì tutto un telegiornale dando dell’“imbecille” a Moretti, salvo aggiungere ogni volta un “metaforicamente parlando”.

Moretti che, nel film “Aprile”, aveva raccontato la sua prima canna, fumata la sera del trionfo di Berlusconi nel 1994, mentre in tv guardava proprio Fede. Non fu tenero nemmeno Roberto Benigni, che nel formidabile show teatrale “TuttoBenigni 1995-1996” ci andò giù duro: “Non faccio battute su Emilio Fede, è come sparare sulla Croce Rossa. Gli voglio bene come se fosse normale. Lui non è un giornalista qualsiasi, è direttore del Tg4”. E alla domanda sul perché fosse lì, si diede da solo la risposta: “Secondo me Silvio l’ha messo lì per aiutare tutti quei bambini con problemi di sviluppo e depressi: ‘Mamma non diventerò mai nessuno’. Allora la mamma alle 19 si sintonizza su Rete 4: ‘Guarda, figlio mio, quello lì è direttore’. A quel punto uno si sente autorizzato a montarsi la testa”.

Prima dell’approdo alla Fininvest, Fede era stato tante altre cose

Tuttavia, prima dell’approdo alla Fininvest, Fede era stato tantissime altre cose, spesso ignorate o dimenticate dall’onda travolgente che lui contribuì a far montare negli anni novanta. Assunto giovanissimo in Rai, ci rimase fino al 1987. Inviato speciale in Africa per otto anni (da qui il soprannome ‘Sciupone l’Africano’ per i costi delle sue trasferte), conduttore e direttore del Tg1. Fu lui a concepire la diretta no-stop di 18 ore da Vermicino per documentare il dramma di Alfredino Rampi. “Non è mai stato capito che nacque per esaltare la solidarietà, non la disperazione”, spiegò tempo dopo. “Volevamo raccontare le lacrime, le preghiere, il desiderio di salvare la vita, far capire la speranza, il dovere e quindi la gioia di salvare”.

Il rapporto con la Tv di Stato si concluse bruscamente a seguito di un processo per gioco d’azzardo da cui uscì completamente assolto. Rimasto a spasso, accettò prima l’offerta di Rete A, dove fondò il primo tg privato nazionale della televisione italiana e, successivamente, si lasciò corteggiare dal Cavaliere.

Da direttore di Studio Aperto, la notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991 azzerò per sempre il monopolio dei tg della Rai. Il programma, nato il giorno prima come approfondimento giornalistico sulla crisi nel Golfo, fece il colpaccio. “Pronto, pronto, hanno attaccato – urlò Silvia Kramar al telefono – il cielo di Baghdad è pieno di fuochi”. Il segreto fu l’utilizzo del telefono, anziché del satellite, come al contrario faceva la Rai, costretta a fissare determinati orari per i collegamenti.

Il fiuto per la notizia e la capacità di arrivare davanti agli altri non sbiadirono nemmeno l’11 settembre del 2001. Alle 15.12 di quello che sembrava un anonimo e noioso martedì, Fede apparve in onda con addosso un improbabile giubbino color ocra. Dal secondo attacco alle Torri Gemelle erano passati appena nove minuti: “Gravissima sciagura, forse un attentato, ancora non si sa. Due aerei si sono schiantati contro il World Trade Center nel cuore di New York”.

Lo strappo con Mediaset

Ma Emilio amava perdersi nel ‘resto’. Vittima perfetta di “Scherzi a parte”, fu persino complice di brillanti beffe, come quella firmata a “Il Grande Bluff” ai danni di Natalia Estrada. Per non parlare dell’“Indagine sulla canzone truccata”, finto speciale d’inchiesta trasmesso nel febbraio del 1998 contro il Festival di Sanremo. In quella circostanza annunciò l’arresto di Iva Zanicchi, con le immagini del fermo commentate da Pupo, Giuliano Ferrara e Alba Parietti. Era tutto finto e la stessa Zanicchi dovette uscire anzitempo dai camerini per rassicurare i familiari a casa. A Mediaset scoppiò una bufera interna e ad indignarsi furono in special modo i giornalisti dell’azienda. Enrico Mentana parlò di “autogol”, Michele Santoro (che su Italia 1 era al timone di “Moby Dick”) non usò mezzi termini: “Un’operazione di cabaret, con un intervento moralistico che ha generato effetti ridicoli, affidata a chi per mestiere dovrebbe farsi garante della bontà delle notizie trasmesse. L’uso del medium, a differenza del celebre caso di Orson Welles e della sua cronaca sull’atterraggio dei marziani, non è stato esaltato, ma limitato, povero e prevedibile. Il risultato, una specie di sberleffo all’indirizzo dei giudici”.

Ne uscì illeso, addirittura rafforzato. Miracolo che non si ripeté il 29 marzo 2012, giorno del drastico e definitivo allontanamento. “Non ho mai visto quest’azienda licenziare qualcuno”, dichiarò con un ostentato sorriso sulle labbra. Non poté però nulla di fronte al freddo comunicato di Mediaset: “Dopo una trattativa per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro non approdata a buon fine, Emilio Fede lascia l’azienda. Mediaset lo ringrazia per il lavoro svolto in tanti anni di collaborazione e per il contributo assicurato alla nascita dell’informazione del gruppo”.

The end e titoli di coda su un sodalizio che sembrava indissolubile. Il coinvolgimento nel Ruby-gate, la condanna per favoreggiamento della prostituzione, un’accusa di riciclaggio per il presunto tentativo di versare nella Banca di Lugano 2,5 milioni e una triste vicenda di fotomontaggi hot riguardanti i vertici di Mediaset, resero lo strappo profondo ed insanabile.

A Mediaset non sarebbe più riapparso, se non all’interno dell’unica puntata di “Radio Belva”, come inviato in una sede di Rifondazione Comunista, e di “Striscia la Notizia”, a cui Fede deve il dono dell’eternità. Rimarranno i suoi fuorionda, le sue sfuriate (assiduamente fomentate dalla sua redazione) e quel “che figura di merda” divenuto meme, praticamente perfetto nella timbrica, nella metrica e nell’intonazione.

Fede è stato tanto, è stato tutto, è stato troppo.