Il lutto confonde, agita, scuote. La fine di tutto genera inevitabilmente un nuovo inizio, almeno per chi resta. Paradossalmente, il lutto crea sempre vita nuova.
“Non ho potuto e in piedi
sono rimasta. Difficile
è cadere”.
Ci sono opere che trovano un posto nel panorama letterario non appena vengono concepite, altre invece devono aspettare decenni. Ogni libro ha il suo tempo. Quello di Ancestrale è stato lungo: composto nel 1953 da Goliarda Sapienza, all’epoca trentenne, vide la luce soltanto dopo più di mezzo secolo, nel 2013, grazie alla cura di Angelo Pellegrino per La vita felice. Nel 2025 Einaudi lo ripropone in un’edizione più aggiornata ed estesa, arricchita con nuovi apparati critici – sempre a cura di Pellegrino, con Postfazione di Maria Grazia Calandrone.
Si tratta “dell’atto di nascita dell’esistenza letteraria” della scrittrice siciliana. La sua prima raccolta poetica, primo grido della sua anima, febbrile e forte germoglio della sua voce nel mondo. Un atto fondativo, laboratorio di immagini e ossessioni che annuncia la sua futura scrittura, e che esploderà poi nell’Arte della gioia.
Quest’opera, pur meritando attenzione fin dagli anni Cinquanta, ricevette opinioni contrastanti dalla critica. Inizialmente annegata dall’indifferenza e dal rigetto di alcuni, come Mario Alicata e Cesare Garboli, venne in seguito apprezzata da altri come Anna Banti e Roberto Longhi. Goliarda aveva ben compreso che la disapprovazione di Alicata – detentore dell’egemonia culturale del partito – significava l’esclusione da case editrici, riviste e giornali e da tutto un ambiente di sinistra di cui faceva parte, se non altro per origine familiare, anche se, già a quel tempo, con posizioni fortemente critiche. I tentativi editoriali dunque cessarono in fretta, com’era tipico per la scrittrice, la quale, stanca di lanciarsi all’inseguimento degli editori, cominciava un nuovo lavoro.
Nell’Introduzione al volume di Einaudi, Angelo Pellegrino racconta di come Goliarda avrebbe potuto, a quel tempo, farsi fare una plaquette per far circolare il testo tra amici e conoscenti, e invece non lo fece: “il suo pudore non poteva superare certi scogli. E questa raccolta era tutto il suo pudore”. L’intera raccolta rimase nascosta, e le poesie diventarono così una forma di comunicazione destinata a rivelarsi soltanto agli amici. A lui, infatti, le offrì come un segreto, da custodire nell’intimità. E lo erano: erano il segreto del suo lutto, quello primario, quello che annienta e distrugge, apparentemente tutto, per portare alla luce qualcosa di nuovo. Gli inizi letterari di Goliarda Sapienza presero le prime forme dall’esigenza di esprimersi dopo la morte della madre.
Voleva fare l’attrice; non la scrittrice. Ma, si sa, le emozioni più forti cedono il passo all’inconfessabile, e spesso è il trauma della perdita a spalancare le porte dell’arte, a far fiorire ciò che resta inespresso quando le ossa si spezzano. La madre di Goliarda, Maria Giudice, morì nel freddo e corto mese di febbraio del ’53. Fu accudita dalla figlia, che rinunciò a molte tournée teatrali per starle vicino, e che quando scoprì che alla donna, gravemente diabetica, non rimanevano più di sei mesi di vita, le aprì un conto nella pasticceria più vicina. Questo il loro rapporto.
“Mi muore il giorno
e il gesto s’è perduto
fra il fumo e il lampadario
Un segno nero
già traccia intorno a me
cupo abbandono”
Ancestrale si compone di una natura così intima che fa quasi paura. Durò un decennio l’elaborazione di questo grave lutto, al quale si aggiunsero nuove perdite, altre mancanze. L’abbandono di molte idee e speranze trasmesse dai genitori, il distacco dalla Sicilia, l’impossibilità di fare teatro o di recitare nel cinema, e la crisi del suo rapporto affettivo, nata dall’incomprensione, dalla percezione di non essere vista. Si tratta di una delle raccolte poetiche più personali che si possano leggere, un viaggio all’interno delle emozioni, che prendono contatto con ogni parte dell’autrice, svelandone drammi, sofferenze, contraddizioni, desideri e bugie.
Questa silloge diventa una storia, una fiaba dove si racconta che i morti e i vivi danzano in cerchio, dove la luna mente, e si ha paura di ricordare. In questo “fare disfare ancora rifare”, “[…] un lutto stretto/ avvolge i tetti del mare”, scava tra i tendini, come un verme, si nutre del sangue nelle vene e raggela i sentimenti. Il dolore annulla ogni certezza, tutto ciò che resta è la consapevolezza di soffrire, di vedere l’irrefrenabile sgretolarsi della vita attorno a noi: “Non c’è niente che possa rallentare / questo certo dissolversi di medusa/ aggrappata alla sabbia/ lontana dal mare”.
“Verrà a me e non può mancare”: scrivere poesia è esigenza, non si arresta. Goliarda Sapienza lo fa con un linguaggio essenziale, puro e a tratti crudo. Sono versi spogli, privi di aggettivi, senza fronzoli, che prediligono i verbi all’infinito:
“Separare congiungere
spargere all’aria
racchiudere nel pugno
trattenere
fra le labbra il sapore
dividere
i secondi dai minuti
discernere nel cadere
della sera
questa sera da ieri
da domani”.
Una scrittura primordiale, nascente, che arriva nel punto più profondo: è questo che impone il lutto, il dolore – il niente. Non chiede altro, le priorità si ristabiliscono, tutto ciò che prima era necessario pare superfluo, il sole e le stelle si spengono, e ci si sente vuoti. È una scrittura ridotta all’osso, quella di Sapienza, e allo stesso tempo è precisa come un bisturi – emozionale, magmatica, sembra seguire i battiti del cuore.
“È compiuto. È concluso. È terminato.
È consumato l’incendio. S’è fermato.
S’è chiuso il cerchio pietrificato.
Il tempo s’è fermato. È consumato
il delitto. S’è bruciato
il ricordo. L’ansia è cessata.
Una coltre di lava ha sigillato
ogni cranio ogni orbita svuotata.S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
il silenzio di lava. Le formiche
girano intorno al rogo spento impazzite”.
Sono versi taglienti, ricchi di sangue, immagini contraddittorie, alimentati dal paradosso. Perché è paradossale vivere un sentimento che non si riesce a esprimere (“[…] Non sapevo il dolore d’esser muta/ il dolore di piangere e gridare/ senza voce/ contro un muro danzante di sorrisi”), per cui non si trovano parole (“Ascolta non c’è parola per questo/ non c’è parola per seppellire una voce/già fredda nel suo sudario/ di raso e gelsomino”). È paradossale continuare a cercare chi non può più rispondere – chi non riesce a sentire, chi è troppo lontano: “Vedi non ho parole eppure resto/ a te accanto. Non ho voce eppure/ muovo le labbra. Non ho fiato eppure/ vivo e ti guardo. E forse è questo/ che volevo da te, muta restare/ al tuo fianco ascoltando la tua voce/ il tuo passo scandire le mie ore”. Restare fedeli a un recinto sacro, eppure vuoto.
L’intimità di questa raccolta è disarmante: un continuo dialogo tra un “io” e un “tu” inconciliabili, eppure indistinguibili, per questo indivisibili. La prima persona singolare contraddistingue la maggior parte dei componimenti, e in molti di essi è proprio presente in funzione di quel “tu”. È questo che accade quando il dolore arriva senza bussare: la nostra vita ci pare impossibile da affrontare. Così l’assenza diviene viva presenza, il vuoto è insostenibile: strenuamente, con le unghie e con i denti lottiamo per riempirlo con la nostalgia per qualcosa che non c’è più, abbandonandoci totalmente all’altro – a chi non ci può più guidare, sostenere, accarezzare.
“Vorrei all’ombra del tuo
sguardo
sostare e con la
mano disegnare
la tua voce
che cala verso
me a raccontare.Vorrei al ritmo
del verso
abbandonarmi ma
il tempo stringe
e devo correre
ancora”.
Quando perdiamo un amore – una madre, un padre, un compagno, un cane – perdiamo una parte di noi, per sempre. Bisogna ricostruire: si sente, in sottofondo, una grande consapevolezza di sé nei versi di Sapienza. Del proprio corpo, delle proprie contraddizioni, dei propri sentimenti. Della nuova direzione che occorre prendere, anche se ancora non la si conosce: “Ho camminato sul ciglio/ dei miei sogni. Sbattuta/ dall’onda nera delle tue occhiaie./ Risucchiata/ dal gorgo del tuo fiato/ Non posso tornare”.
Il titolo di questa raccolta è la chiave della sua intera lettura, secondo Pellegrino. Inizialmente doveva essere Informazione biologica, poi I luoghi ancestrali della memoria. Certo, è evidente la volontà, per Goliarda, di un ritorno all’ancestralità attraverso le proprie origini come i genitori e la terra, ma anche la necessità di costruire un nuovo mondo a partire da queste origini. Un mondo solo suo, composto in dieci anni, con sofferenza, memoria, distacco e sentimento.
C’è tanto mare, in questo mondo. Ci sono alghe, meduse, ci sono gli scogli, il sole e la luna. C’è la Sicilia, quella terra per lei madre: alla fine del libro è presente una raccolta intitolata Siciliane – pubblicata per la prima volta da Il Girasole edizioni nel 2012 –, in cui troviamo poesie composte soltanto nel dialetto isolano. Sono, a coronare il tutto, l’espressione di un’anima pura, libera dai pregiudizi, sola nel suo vibrante coraggio. Con Ancestrale, Goliarda Sapienza non recita solo un dolore, ma fonda una voce che ancora oggi non smette di bruciare.
“E va beni. Facemu cuntu
ca’ un ni canuscemu.
Comu si’ un avissimu jucatu
nsemmula nna rina.
Eppuru lu sai ca m’aiutasti
a scavari na fossa
finu a quannu tuccammu
l’acqua nnu funnu.
L’acqua du mari”.
Anna Taravella
***
A mia madre
Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra
Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua
Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante
Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti
Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara.
Goliarda Sapienza