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Pierfrancesco Favino pare condannato al protagonismo assoluto, all’essere un mattatore sempre e comunque e “Il Maestro” di Andrea Di Stefano ne è la prova conclamata. Tennis, vita, amore, paura, sensi di colpa, lacrime e sorrisi sono il cuore di questa strana commedia presentata Fuori Concorso a Venezia 82, un po’ sportiva e un po’ no.
“Il Maestro” – La trama
Il tennis è diventato improvvisamente il grande amore degli italiani a livello nazionale. “Il Maestro” di Andrea Di Stefano, certifica questo grande innamoramento proponendoci una storia ambientata negli anni ’80, vagamente autobiografica, in cui la racchetta diventa metafora di un percorso a metà tra il film di formazione e la metafora generazionale. Il protagonista è Felice (Tiziano Menichelli), un giovane promettente tennista tredicenne che il padre (Giovanni Ludeno) ingegnere, ha letteralmente cresciuto con la speranza di farlo diventare il nuovo Lendl o Panatta. Allenamenti estenuanti, calcoli numerici e soprattutto un’impostazione tecnico-tattica dittatoriale: si gioca dal fondo, di rimessa, ci si difende e basta, vietato attaccare, quello per i figli di papà, per chi può anche permettersi di perdere qualche match. Nel momento in cui Felice supera lo scoglio dei regionali e approda ai nazionali però, il padre si rende conto che gli serve un allenatore e scegli Raul Gatti (Pierfrancesco Favino).
Questi è una ex promessa non mantenuta del tennis, un donnaiolo con un passato fatto di alcol, relazioni fallite e tendenze suicide. Oppresso dalla necessità di vincere sempre e comunque per soddisfare quel genitore dittatoriale e ipercompetitivo, timido, soprattutto verso le ragazze, inizialmente trascurato da questo coach che appare più interessato a correre dietro alle gonnelle e dormire, in breve Felice svilupperà con il maestro un rapporto complesso, tormentato. “Il Maestro” è una commedia a metà strada tra il road movie e il film sportivo e di formazione. Tutto alla fin fine verte spesso sulle spalle di Pierfrancesco Favino, circondato comunque da un cast di contorno che annovera Dora Romano, Valentina Bellé, Paolo Briguglia e anche Edwige Fenech. Andrea Di Stefano però, tende a togliere ai personaggi spazio e spessore, quasi avesse paura di intaccare lo sviluppo del rapporto tra i due protagonisti. Il risultato è un film discontinuo, un po’ troppo lungo ma sicuramente con tanto cuore e più di qualche qualità che va oltre la confezione.
Una strana coppia che più che il tennis insegue la felicità
“Il Maestro” ci parla di passato e futuro. Felice e Andrea sono due volti della stessa persona, dello stesso possibile percorso, e il paradosso è che spesso il ragazzino ci appare essere più adulto di questo cinquantenne vitellone, incredibilmente fragile dietro la vanità di viveur, perseguitato da scelte sbagliate ed errori che ne hanno rovinato completamente l’esistenza. La chimica tra i due protagonisti è quasi perfetta, la freddezza del primo e l’esuberanza infantile del secondo, il problema però è che “Il Maestro” allunga troppo il brodo, a un certo punto il tennis lo mette veramente troppo da parte, pur dandoci un’immagine alquanto realistica e spietata di quella che è la vita dei baby fenomeni o supposti tali. Pierfrancesco Favino è toccante, divertente, crea un personaggio che è un mix tra i diversi lati di quel divismo tennista, che negli anni ‘70 e ’80 in particolare, produsse personaggi a dir poco leggendari spesso però condizionati nella seconda parte della loro esistenza, dagli eccessi, errori e sensi di colpa accumulati.
Il problema è che a volte il film si perde per strada, si dimentica del suo piccolo protagonista, fa diventare il centro esclusivamente Gatti, con un intermezzo sulla paternità perduta alquanto evitabile, con uno squilibrio nell’alternare malinconia e allegria, che non sempre viene bilanciato nel modo giusto. Tuttavia, è sicuramente un film popolare, fatto per il grande pubblico e che il grande pubblico apprezzerà, soprattutto in questa fase dove grazie a Sinner e Paolini, la racchetta pare essere diventata occasione di riscatto metaforico di un paese che, come sempre, il nostro cinema come in questo caso ci descrive in modo un po’ troppo assolutorio. Tuttavia è un film che si allontana dalla dimensione tipicamente borghese, sa parlarci di un individuo solo, che al di fuori della racchetta non ha altro, costretto a vivere nel suo passato, bene o male. Non basta però per fare quel salto di qualità che sfugge sul più bello, come un servizio troppo insidioso.
Voto: 6,5