di Alessandra Dal Monte

Il pasticcere tedesco, in Italia dal 1989 e oggi giudice del programma di Real Time Bake Off, si racconta: «Vinsi il concorso da poliziotto, poi diventai il Re del cioccolato. Marchesi, il mio maestro, non mi parlò per anni. Nemici? Non penso di averne, ma mi mandano spesso la finanza in negozio a Milano»

Ernst Knam, domani (il 5 settembre 2025) ricomincia Bake Off, di cui è giudice. La storica conduttrice Benedetta Parodi è stata sostituita dopo 12 anni da Brenda Lodigiani. Come l’ha presa?
«È stato un terremoto! All’inizio ero perplesso, non me l’aspettavo, anche perché l’ultima stagione è andata da record: è come se il Milan vincesse scudetto e Champions League e cambiasse allenatore. Ma poiché il format madre inglese è condotto da una figura comica, anche in Italia si è fatta questa scelta. Nulla contro Benedetta».

Ha parlato con Parodi?
«È un’amica e ci sentiamo ogni tanto, ma non ho mai discusso con lei di questo: le cose di lavoro devono restare tali, non giro il coltello nella piaga e non faccio domande».



















































Di Lodigiani che dice?
«È una bravissima professionista, ci siamo divertiti molto a girare: prima il programma era più impostato, in questa nuova versione ci sono canti, balli e tante risate».

Veniamo a lei: tedesco, pasticcere dall’età di 17 anni, dal 2014 è noto in Italia come il «Re del cioccolato».
«Non mi è mai piaciuto quel nome. Non volevo fare il programma e non volevo che si chiamasse così, mi sembrava ingiusto auto-coronarmi re. Ma Paolo Dago, della casa di produzione Zodiak, poi Banijay, è venuto da me tutti i mesi, per 11 volte, provando a convincermi. Aveva visto qualcosa, pensava funzionassi in tv. Alla fine il mio collaboratore Davide Buggini si è messo in ginocchio: “Diciamogli di sì, è un treno che non torna”. Avevano ragione loro, la tv mi ha cambiato la vita. Ma sempre alle mie condizioni: non seguo copioni, dico quello che penso».

Manca all’appello MasterChef: le piacerebbe?
«Sarei ipocrita a dire di no, ma non mi hanno mai chiamato, del resto Sky è Sky e io lavoro con Discovery. Però sarebbe un sogno partecipare. E anzi, mi piacerebbe andarci in coppia con Iginio Massari, così davvero i concorrenti se la farebbero sotto… (ride, ndr)».

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Il rapporto con Massari?
«Amichevole, bello».

Ha dei nemici?
«Io non conosco la parola invidia, non sono quel tipo di persona. Perciò nemici dichiarati non penso di averne, ma ogni tanto qualcuno mi manda la finanza nella pasticceria di via Anfossi, a Milano. Poi a volte compaiono recensioni pilotate sui social, tipo “il caffè e la panna non sono buoni”, peccato che non serviamo né caffè, né panna. Ma non ci perdo tempo, la mia energia è più preziosa».

Saggio…
«Non è sempre stato così: da giovane mi difendevo. Nelle mie varie esperienze lavorative sono stato preso di mira, e mi facevo rispettare».

Per esempio?
«Nel 1984, avevo 21 anni, al Dorchester di Londra eravamo in 30 pasticceri: mi spegnevano il freezer di notte per sciogliere i gelati, o mi bruciavano i biscotti. Un giorno ho urlato — ero più rude di adesso — e da quel momento hanno smesso. L’anno dopo in Svizzera, al Noga Hilton di Ginevra, c’erano 108 francesi che mi chiamavano “tedesco di m…” e mi chiedevano di preparare liste infinite di dolci. Mi scocciai e sporcai di proposito tutte le placche da forno dell’albergo: a quel punto, diventammo amici».

Poi ha smesso con questi atteggiamenti?
«Dipende… al ristorante di Gualtiero Marchesi, a Milano, ero il responsabile della pasticceria. I ragazzi della cucina dovevano passare tre mesi con me. Nell’anno in cui Oldani, Berton e Cracco erano nella stessa brigata Carlo capitò prima delle vacanze estive, perciò gli feci pulire le fughe delle piastrelle con lo spazzolino da denti. Oggi quando ci vediamo ci ridiamo su. Al Dorchester io e un collega facevamo a gara a quanti commis mandavamo via all’anno: lui nove, io sette. Chiedevamo cose assurde: tagliare in due i semi del cumino, appendere gli spaghetti uno ad uno per farli asciugare…».

Cose da bulli!
«Sempre con il sorriso. Ma era il sistema dell’epoca».

Oggi sarebbe grave…
«Ogni tanto mi chiedo se ho fatto venire la depressione a qualcuno. Io sopporto bene lo stress, ma non è per tutti così. Comunque, adesso è diverso: il clima in pasticceria è familiare, 25 persone che entrano ed escono contente».

Riavvolgiamo il nastro: che famiglia ha avuto?
«Papà era severo: per lui stanchezza, vacanza e malattia non esistevano. Io, terzo di cinque fratelli, ero timido, attaccato alla mamma».

Fu lei a suggerirle di diventare pasticcere.
«Sì: mio padre voleva che facessi il fioraio come lui, aveva un’attività a Langenargen, da noi in Germania. Ma io sognavo di diventare pilota di Formula 1, oppure ornitologo: avevo una voliera con 200 uccellini africani e australiani. Non sapendo il latino, però, sarebbe stato impossibile, perciò ho ripiegato su un concorso da poliziotto. L’ho vinto ma l’assunzione sarebbe arrivata anni dopo. Mamma disse: “Diventa pasticcere, così la domenica ci fai una torta”».

Che percorso ha seguito?
«Dopo l’apprendistato mi diedero un elenco con 20 indirizzi importanti in Europa. Preparai a macchina 20 curriculum in una notte, e nel giro di poche settimane ero già in Scozia, all’hotel 5 stelle Gleneagles. In famiglia non credevano che sarei partito, mio cognato mi disse: “Non hai i cosiddetti, durerai due mesi”. Non sono mai più tornato».

Come arrivò da Marchesi?
«Volevo fare un’esperienza in un ristorante tre stelle: per il colloquio, nel 1989, comprai la prima cravatta della mia vita. Marchesi mi parlò in tedesco, lo sapeva molto bene, e mi diede subito fiducia. Per tre anni non ho fatto vacanze, sono stato ovunque con lui».

Che cosa le ha insegnato?
«Una visione: mai rinunciare alla qualità. Non bisogna fare l’errore di abbassarla, soprattutto quando le cose vanno bene. E poi a togliere, a essere essenziale. Si è offeso quando gli ho detto che mi sarei messo in proprio, non mi ha parlato per anni. In seguito ci siamo riappacificati».

Ha aperto la sua pasticceria nel 1992.
«L’unica di Milano che non faceva mignon, solo torte. Dicevano: “Il tedesco non mangerà il panettone”. Sono 33 anni che mangio panettone e colomba, anche se all’inizio è stata dura, otto clienti su dieci se ne andavano».

Come ha ingranato?
«I giornalisti che mi seguivano da Marchesi mi hanno aiutato. E ci siamo focalizzati su pochi prodotti eccellenti a prezzi non impossibili».

Vita privata?
«A lungo non l’ho avuta, lavoravo e basta. Poi alla scuola serale di somministrazione ho conosciuto la mia prima moglie, brasiliana: era la governante della sindaca Moratti. Insieme abbiamo avuto due figli, Carlos e Claudius, che oggi hanno 25 e 23 anni. Il matrimonio è finito perché lavoravo troppo: all’epoca gestivo anche un catering di piatti salati, le mie giornate duravano 48 ore. Adesso l’ho ridotto moltissimo».

Dal 2010 è sposato con Alessandra Mion, alias Frau Knam. Cosa ha imparato?
«Che bisogna andare nella stessa direzione rispetto ai figli e ai valori, mantenere i propri spazi e venirsi sempre incontro, a volte anche facendo un passo indietro».

Che padre è per Giorgio, 14 anni, e Anna Rita, 12?
«Protettivo, ma aperto: possono fare quello che vogliono, basta che si impegnino al 200 per cento».

La torta più difficile che le hanno commissionato?
«Una da 18 piani, per un compleanno di Silvio Berlusconi. Era alta tre metri e 50».

Quella per cui è stato pagato di più?
«Ventimila euro per una torta con 500 rose, tutta nera, per lo stilista Philipp Plein».

Qualcosa che teme?
«La malattia dei miei cari. La morte no, ho sviluppato un certo distacco: da bambino figlio di fioraio allestivo le camere ardenti dei defunti».

Il dolore più grande?
«La perdita dei genitori».

Stato d’animo attuale?
«Rock’n’roll: sono appena stato a vedere il concerto degli Iron Maiden con mio figlio».

4 settembre 2025 ( modifica il 4 settembre 2025 | 08:07)