La prima domanda, inevitabile, non è stata sul film. Alla conferenza stampa di In the Hand of Dante, Julian Schnabel si è trovato subito di fronte al tema che ha attraversato i primi giorni di Venezia: l’assenza dei suoi attori, l’israeliana Gal Gadot e Gerard Butler, al centro di polemiche per le loro posizioni vicine al governo di Israele. Il regista non ha esitato: «Non c’è ragione per boicottare gli artisti. Io li ho scelti per il loro talento artistico e hanno fatto un lavoro eccezionale. Dopodiché penso che dovremmo parlare del film piuttosto che di queste tematiche».

È stato un modo diretto, quasi brusco, per non rispondere su Gaza e riportare l’attenzione sul suo lavoro. «Il punto è distinguere il talento dalla mediocrità», ha aggiunto, in camicia senza maniche e panama in testa, «e io credo che questo film sia la prova di quanto il talento possa trasformare un’idea in qualcosa di vivo».

In the Hand of Dante non è solo un adattamento, ma un progetto che ha accompagnato Schnabel per quindici anni. «Fu Johnny Depp a propormi cinque libri da cui sviluppare un film», ha raccontato. «Scelsi quello di Nick Tosches, che sembrava il più impossibile. Eppure, proprio per questo, era quello che sentivo più vicino». Il risultato è un’opera stratificata, dove il grande poeta e lo scrittore americano convivono nello stesso corpo – quello di Oscar Isaac- attraversando epoche e identità. «Julian è un visionario e un artista senza precedenti», ha detto l’attore. «Per prepararmi ho letto diverse edizioni della Divina Commedia, compresa una in italiano. Ma la cosa più importante era la fine di ogni giornata di riprese: Julian mi chiamava e parlavamo di quello che avevamo fatto. Non mi era mai successo con altri registi. Mi ha fatto sentire parte del processo creativo, non solo un interprete».

Schnabel definisce il film «una commedia tragica, un po’ come la vita». E chiarisce il suo obiettivo: «Il desiderio, attraverso l’arte, è arrivare a un presente eterno, come quello in cui ci proiettano i quadri di Caravaggio. Tutti moriremo, ma quello che resta è ciò che fissiamo attraverso l’arte. È l’unico modo che abbiamo per reagire».

Il regista ha evocato anche un ricordo personale, intimo e potente: «Stringevo tra le braccia Lou Reed quando stava morendo, e gli dissi: “Ora stai diventando tu il poema”. Credo che sia stato importante per lui sentirlo in quel momento. La vita contiene la morte, ma la rappresentazione della vita no: per questo non esiste una forma d’arte pessimista. Anche quando i personaggi sono tragici, l’arte resta ottimista».

Il film ha un cast molto interessante: Al Pacino, John Malkovich, Jason Momoa, Franco Nero, Sabrina Impacciatore, Benjamin Clementine (anche autore delle musiche). E Martin Scorsese, che nel film è Isaia. «Marty ha sempre sostenuto la mia carriera», ha detto Schnabel. «La frase che il suo personaggio rivolge a Dante – puoi mentire e andare all’inferno, oppure dire la verità ed essere crocifisso – è qualcosa che lui stesso ha vissuto. Non poteva esserci nessun altro in quel ruolo».

Alla fine, ciò che per Schnabel conta è il processo creativo: «Quando dipingo smetto di pensare, e lo stesso mi accade quando scrivo o quando giriamo. La sceneggiatura era una base, ma ogni giorno costruivamo qualcosa di nuovo, insieme. Io preparo la scena, creo lo spazio perché tutti possano esprimersi. È questo che rende un’opera liberatoria. Non l’ho fatto per vendere, ma per metterci dentro qualcosa di bello».

Ed è proprio qui che In the Hand of Dante trova il suo centro: non tanto nella celebrazione del Sommo poeta, quanto nella possibilità di restituirlo al presente, come materia contemporanea. Schnabel lo conferma: «Gli italiani hanno letto la Divina Commedia a scuola, ma rileggerla più avanti nella vita è un’esperienza che arricchisce molto di più. L’arte ci consegna sempre un eterno presente. È il nostro modo di sopravvivere al tempo».

Louise Kugelberg e Julian Schnabel

Stefania D’Alessandro