Palestina pop?

Negli ultimi mesi la causa palestinese è diventata pop per certi versi, visto che molti personaggi pubblici si sono esposti mediaticamente, soprattutto da quando pezzi grossi come Grossmann e affini hanno parlato, così da poter dare il via libera a coloro che potevano seguirne la scia, per lo più senza correre rischi, né rappresaglie.

Nonostante questo, la repressione continua ad essere fortissima da parte degli stati europei e degli USA, per chi manifesta e cerca di incidere in qualsiasi modo, sperando di inceppare anche qualche piccolo ingranaggio della macchina genocidaria.

Le azioni sono state tante e di diversa natura, tutte organizzate dal basso, appoggiate dalla stragrande maggioranza della popolazione europea e osteggiate dai loro governi, che per ragioni economiche e politiche (si pensi solo alla compravendita di armi e di sistemi di cybersecurity), continuano ad essere complici dello stato d’Israele e dei suoi folli e sanguinari intenti.

La Global Sumud Flottilla, da qualche giorno in mare, è l’ultima e più grande impresa.

Una crociata del terzo millennio, che salpa per nobili scopi, per la prima volta non alla conquista, ma per rompere un assedio, o almeno sensibilizzare ulteriormente chi ha la forza e il potere di intervenire, così che dall’opera di pochi coraggiosi volontari, come breccia, si possa avviare una serie di negoziati, per porre fine a quest’eccidio e da lì riprendere le trattative e le risoluzioni saltate e non rispettate negli ultimi decenni.

Qualcuno potrebbe pensare che è da folli, perché senza speranza. Ma è il segno ulteriore che lo strazio di questo genocidio in diretta è umanamente insostenibile.

Boicottaggio – sì o no?

Si è sentito spesso parlare di boicottaggio per le merci prodotte in Israele.

Sono circolate molte immagini sui social, tra le ultime quelle delle operatrici di una casa della salute dell’Asl Toscana Sud Est, che hanno girato un video in cui buttavano nel cestino dei rifiuti dei farmaci della Teva (multinazionale israeliana).

L’azione un po’ ingenua perché compiuta nel luogo di lavoro, con farmaci appartenenti al SSN, è stata criticata da molti e le operatrici si sono poi scusate.

Dopo qualche giorno i sanitari hanno pensato ad un giorno di digiuno come altra forma di protesta.

In fin dei conti, da privato cittadino, chiunque potrebbe scegliere quale merce comprare e quale boicottare. E da lavoratori organizzati si potrebbe insieme decidere come gestire e far circolare o meno una data merce. A quel punto, potremmo vedere il boicottaggio come una forma di embargo al contrario. Cioè organizzato dal basso e contro un invasore e non dall’alto e da un colonizzatore-sfruttatore.

Quindi, nonostante la complessità della nostra economia e dei singoli sistemi politici, per cui per un impatto profondo e duraturo – rivoluzionario – servirebbe un internazionalismo di classe che trascendesse lo stato-nazione ( ci sono diverse opposizioni interne ad Israele, anche se il solo fatto di trovarsi in quel luogo, va a connotare i manifestanti come occupanti; da qui si riapre la complessa questione che intercorre tra guerra, occupazione, riconoscimento dello stato palestinese, non osservanza di decine di risoluzioni Onu e di uno stato, quello israeliano, che nasce nel 1948 con il brutale trasferimento forzato di quasi 800.000 palestinesi e la distruzione di oltre 530 città e villaggi, la Nakba), il boicottaggio può essere una delle poche azioni concrete, oltre alle manifestazioni, ad avere un effetto concreto.

Si pensi, sopra tutti, ai blocchi navali degli armamenti ad opera dei portuali e al discorso che ha accompagnato la partenza della Flotilla da Genova, in cui un camallo comunica a ferma voce che “se solo per venti minuti perdiamo il contatto con le nostre barche, noi blocchiamo tutta l’Europa. Insieme al nostro sindacato USB e alla citta di Genova. Da questa regione escono 13-14 mila container all’anno per Israele. Non esce più un chiodo. Lanceremo lo sciopero internazionale e bloccheremo tutto!”

Lo stato dell’Arte

Dalla inaudita rappresaglia israeliana, a seguito dell’attentato del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, molte call si sono aperte per artisti, sempre allo stesso scopo di sensibilizzare.

C’è però da capire cosa c’è di politico nell’arte, al di là della sua contingente (in)utilità.

Lungi da noi tirare in ballo il realismo di lukacsiana memoria, perché ci costringerebbe a liquidare, in poche righe, il complesso rapporto tra estetica e morale (nel processo di trasformazione delle masse spettatrici da parte dell’artista), insieme a concetti come tipicità, straniamento, degenerazione e avanguardia, che per contraltare tirerebbero dentro Brecht e con lui Majakovski, per i quali teoria e pratica rivoluzionarie costituivano un tutt’uno in senso leniniano e che, attraverso un processo dialettico, sono riusciti a mostrare la profondità dell’umano, a sostenere un ideale e allo stesso tempo a mostrare le falle della parte in cui militavano.

Ciò premesso e considerando i tanti movimenti artistici, più o meno avanguardisti, che caratterizzano lo scorso secolo, ciascuno con una propria visione del mondo, dell’arte e dell’artista, non si può non notare che, durante le due guerre mondiali del secolo scorso, molti artisti occidentali (a parte le idiozie futuriste, poi confutate da quelli che tornavano dalla guerra Zang Tumb Tumb morti, invalidi, storpi con ptsd ante litteram, invece che in estasi per la grandiosa esperienza estetica e virile, di cui vaneggiavano prima di partire) si schierarono contro la guerra e le loro opere portavano traccia di questa loro posizione. Certo bisogna escludere gli artisti di regime, che a parte rarissimi casi, saranno completamente dimenticati.

Credo che le tre posizioni possibili, che ancora permangono, sono quelle di opposizione, di neutralità e di celata connivenza o manifesto supporto.

Le ultime due spesso sono anche posizioni di comodo, che evitano rogne e permettono di avere ingaggi e riconoscimenti, senza essere osteggiati. Inoltre, c’è da considerare che, a seconda del tipo di artisti, si può avere più o meno controllo sul proprio lavoro. Se si pensa agli attori, qualcuno potrebbe dire che sarà il regista che li dirigerà, magari dettando un’interpretazione o confezionando ruoli, che loro non condividono.

Forse, ma anche per certi attori non vale quanto detto.

A tal proposito mi viene in mente Gian Maria Volonté, quando dice: “Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione.

Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita

Quindi delle due l’una: o si è dei servi e si alimenta il sistema di sfruttamento, pur di cavarne fuori qualcosa (fama, soldi ecc…), o ci si muove, secondo le proprie possibilità, affinché ci sia una evoluzione e un miglioramento delle condizioni esistenti.

Nel secondo caso, ci si muove inevitabilmente contro.

Contro le forze, che tendono alla conservazione del sistema capitalistico.

E queste due alternative rappresentano il bivio che incontriamo costantemente nella nostra quotidianità, al di là del lavoro che svolgiamo e del nostro status.

E il destino non è altro che l’insieme delle scelte identiche ripetute, che si sedimentano e ci sopravvivono.

Cos’è politico?

Ogni nostro atto è politico.

Dalle relazioni, alle scelte lavorative, agli acquisti, fino ai passatempi.

Per un artista, pur attenendoci alla sua opera e tralasciandone per ora gli aspetti privati, può fare la differenza sapere da dove vengono i soldi che la e lo finanziano?

Oppure tutto è lecito, pur di supportare la sua arte?

Cosa diremmo se un imprenditore costruisse la sua impresa grazie ai soldi della mafia?

E di esempi ne abbiamo non pochi nel nostro bel paese…

E se è così, cosa ne è del suo messaggio di pace e amore, o della sua indignazione, se nei fatti sta alimentando un sistema di morte e di oppressione?

Questo dovrebbe essere ben chiaro quando un artista o personaggio pubblico prende una posizione superficiale riguardo a questioni importanti, ma non corre rischi, non allinea le proprie scelte, sia pubbliche che private, a quegli ideali sottesi alle dichiarazioni rilasciate. Altrimenti sarebbe come leggere la letterina di Babbo Natale di un bambino di 6 anni, che chiede la pace nel mondo, tra l’elenco di giocattoli, videogiochi e dolciumi.

4 Settembre 2025 – © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: 4 Settembre 2025, ore 3:31

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