La voce al Tg parla di nuovi bombardamenti sull’Ucraina, di altre vittime civili. Parole uguali, o molto simili, riportano i giornali. Si citano numeri, luoghi, i nomi tecnici degli ordigni esplosi. Passano in rassegna immagini aeree di macerie, palazzi in fiamme, pompieri. Ed è una storia che si ripete quotidianamente, giorno dopo giorno, da più di tre anni e mezzo. Per quanto tragica, la gente comincia a farci l’abitudine; la guerra diventa un dato di fatto, le morti giornaliere si trasformano in un generico “problema geopolitico”.

Il pericolo, come sempre, è quello dell’assuefazione: ci si dimentica che dietro ai numeri ci sono volti, tra le vittime e i feriti dolore, dolore vero, sotto ai calcinacci biografie sepolte per sempre. Riaprire gli occhi da questo assopimento del senso critico è possibile, ma solo se si fa un passo più avanti, se l’atto del documentare si avvicina di più all’oggetto del proprio racconto e arriva a riscoprirne il viso, la storia personale, riuscendo a valorizzarlo nella sua individualità. In una parola, se il giornalismo si lega all’empatia.

È ciò che fanno i fotoreporter, che mettono spesso a rischio la pelle per consentire a tutti di aprire una finestrella nelle storie degli altri. È ciò che fa Diego Fedele, trentacinque anni, fotografo che ha seguito il conflitto ucraino sin dagli inizi dell’invasione russa, e il cui reportage – intitolato In the Shadow of a Deadly Sky – sarà esposto nel contesto del Festival della Fotografia Etica di Lodi, che si terrà dal 27 settembre al 26 ottobre per la sua sedicesima edizione. Il suo lavoro fotografico, premiato col World Report Award, racconta la scia di distruzione lasciata da più di tre anni di guerra, mentre la pace sembra una prospettiva che si fa sempre più lontana.

La prima volta, a guerra appena iniziata, come la ricordi?
La ricordo bene. Era la mia primissima esperienza di conflitto, quindi ho cercato di andarci piano, di addentrarmi gradualmente. Io e un mio collega siamo atterrati in Moldavia. Lui ha deciso di non proseguire, io invece sono entrato a Odesa, la città nel sud del Paese che si affaccia sul mar Nero, a trecento chilometri circa dalla Crimea. Lì son rimasto un paio di giorni: la guerra era cominciata da poco più di un mese, era molto difficile fotografare, nell’aria si respirava una paranoia incredibile. Per strada era pieno di croci metalliche anticarro e di fortificazioni con sacchi di sabbia: erano impilati anche intorno alle statue e davanti al Teatro dell’opera come muraglia difensiva. Si aspettavano un’invasione dal mare e avevano preparato la resistenza. Kherson, circa centocinquanta chilometri più a est, era subito caduta in mano russa, perché il responsabile dei servizi segreti ucraini (Sbu) che avrebbe dovuto far saltare i ponti, non lo fece: era corrotto, e poco dopo passò dalla parte del nemico. Ancora oggi viene ricordato come un traditore, e come lui anche il sindaco della città.

Da Odesa sei poi tornato indietro?
No, ho preso un treno notturno, e alle sei del mattino mi sono svegliato a Kyjiv, nella capitale, dove ho trascorso quattro giorni, incontrando i primi veri segni di devastazione. In particolare, nella periferia di Buča: lì era quasi tutto distrutto. Case basse ridotte a ruderi, resti di carri armati, cartelli di allerta che dicevano di fare attenzione agli ordigni inesplosi. Il quartiere era completamente deserto, e per strada non c’erano vittime soltanto perché era passata ormai una settimana dalla carneficina russa. Erano state portate via.

Ti sei fermato a Kyjiv o hai proseguito oltre?
Volevo vedere cos’era la guerra per davvero, avvicinarmi ancora. Così in compagnia di due fotografi americani ho preso un altro treno notturno e sono arrivato a Kharkiv, quattrocento chilometri più a est e a soli trentacinque dal confine. I russi stavano a meno di dieci chilometri dal centro.

E cosa ti sei trovato di fronte, quando sei arrivato a Kharkiv? Che clima si respirava?
Le strade erano vuote. L’atmosfera pesantissima. Camminando tra palazzi spettrali, provavo una sensazione di angoscia, di desolazione, uno stato d’animo difficile da spiegare: come durante il Covid, l’aria sembrava sospesa, tutto era immobile, e non sapevi di chi potevi fidarti e di chi non. Con una spada di Damocle sopra la testa: che da un momento all’altro la morte poteva arrivare dal cielo, e né il giubbotto antiproiettile né l’elmetto avrebbero potuto farci niente. Ricordo in particolare Saltivka, a nord-est della città: è sempre stato un quartiere popolare densamente abitato, pieno di alti palazzoni sovietici, che prima degli attacchi era dinamico e vivace. Quando sono arrivato io, invece, era diventato un quartiere-fantasma. Si vedevano solo condomini anneriti; di tanto in tanto uscivano grige colonne di fumo. Nessuno sui marciapiedi: si erano rifugiati tutti nella metropolitana.

Metropolitana di Kharkiv, 30 aprile 2022. Foto di Diego Fedele

Sei sceso? Com’era la vita nel sottosuolo?
La particolarità delle metropolitane ucraine è che sono profonde: per questo gli abitanti le hanno usate – e le usano tutt’ora – come rifugi dai bombardamenti, come bunker civili. Più di seicento persone avevano trovato riparo là sotto, e due mesi dopo l’invasione russa ce n’erano ancora trecento. Alcuni sulle scale, altri nei vagoni. Senz’aria fresca né luce solare, pochi bagni senza docce: una situazione precaria, ma tutti speravano che la guerra sarebbe finita presto. Così non è stato. Nel maggio 2022 l’esercito russo è stato respinto dalla città, e la gente è finalmente potuta uscire. Ma Kharkiv, che nel frattempo si è ripopolata, resta costantemente sotto la minaccia delle cosiddette glide bombs, che vanno da duecentocinquanta a trecento chili di peso e possono essere lanciate da cinquanta chilometri, quindi da breve distanza. La gente di Kharkiv è la più combattiva, coraggiosa e resistente che io abbia mai visto: spesso quando suona l’allarme antiaereo non vanno nemmeno più nei rifugi.

In questi tre anni di guerra, qual è stato il momento emotivamente più difficile?
La strage di Hroza. Hroza è un paesino di nemmeno cinquecento abitanti nel distretto di Kupjans’k, non lontano da Kharkiv. Il 5 ottobre si stava tenendo una veglia funebre in ricordo di un militare che era stato ucciso, se non sbaglio, un anno prima. L’avevano seppellito a Dnipro, che al momento della sua morte era però occupata dai russi. Un anno dopo, finalmente, il feretro era stato riportato nel suo villaggio d’origine, e la comunità si era raccolta per onorarne la memoria e dargli nuova sepoltura, stavolta nella sua terra. Proprio durante la celebrazione, tuttavia, i russi hanno sganciato un missile balistico, uccidendo tutti i presenti. Cinquantanove morti, fra cui se non erro anche un bambino di nove anni.

E tu dov’eri?
A venti chilometri. Quando ho sentito il boato, sono accorso sul posto; non so come descrivere ciò che ho trovato. Forse la parola giusta è una macelleria: persone riverse a terra, alcuni pezzi sparsi. Tutti civili. Ho scattato una foto. È cruda, disturbante, nessuno ha avuto il coraggio di pubblicarla. Ma quell’immagine è la verità: la guerra è una merda. Rientrato a Kharkiv, era tardi, sono andato a letto. Mi son svegliato di soprassalto alle sei del mattino, duemila battiti al minuto nel petto: un altro di quei missili giganteschi era passato sopra il nostro hotel ed era caduto a due isolati di distanza. Mi sono alzato: dalla finestra si vedevano fumo e fiamme. Nell’esplosione è morto un ragazzino di tredici anni.

Com’è cambiata la guerra, dal 2022 a oggi?
Si è evoluta sotto diversi aspetti. Innanzitutto, tre anni fa i droni non erano i padroni dei cieli. La loro presenza letale e ubiqua ha stravolto le dinamiche del conflitto. La vita al fronte è cambiata: prima si combatteva lungo la linea zero, a meno di cento metri dai russi; quel confine poteva essere una linea di alberi o un paesino abbandonato. Oggi fronteggiarsi così allo scoperto è impensabile, anzi, suicida: ora tutto avviene a distanza maggiore, e gli avamposti sono tutti sottoterra per sfuggire ai droni.

Anche la loro tecnologia è cambiata?
Certo, si è sviluppata: ormai tanti sono in first person view. In altre parole, chi li guida indossa un visore  – simile ai VR, per intenderci – e uccide come se giocasse a un videogioco. Nel novembre 2024 ero con la novantatreesima Brigata, quando abbiamo sentito un ronzio. Era un drone che girava intorno alla nostra macchina. Per fortuna avevamo il jamming, un dispositivo che interferisce con le frequenze radio del drone, accecando il visore. Il drone è ancora attivo, può essere ancora pilotato, ma chi lo guida a distanza brancola nel buio. Per fortuna è stato neutralizzato, l’esplosione è avvenuta a qualche metro di distanza. Ma ho avuto paura.

In occidente si è parlato spesso di war fatigue: il morale sempre più basso col proseguire della guerra: è così anche in Ucraina?
Nel 2022, subito dopo la controffensiva, il morale era altissimo: gli ucraini erano determinati, agguerriti, fiduciosi. Ora il conflitto sta andando davvero per le lunghe. La politica internazionale che riempe i giornali passa sopra le loro teste, mentre là si continua a morire. A Sumy ho incontrato Dmytro, un quarantacinquenne laureato in matematica e ora addetto ai mortai nella centodiciassettesima Brigata territoriale. Gli ho chiesto cosa ne pensasse di Donald Trump. «Non me ne frega niente. Guarda dove siamo, stiamo combattendo. Cosa mi può interessare di quel che dice Trump?», ha risposto. Il comandante d’una batteria di artiglieria, vicino a un D-30 sovietico, ha aggiunto: «Questa guerra è come un film. Solitamente la prima parte è molto meglio». Sono stanchi, logorati, e tutto ciò si traduce sia in un abbassamento di reclute che in un aumento delle diserzioni. L’Ucraina ha dovuto adottare metodi di leva obbligatoria abbastanza ruvidi e controversi: nelle città ci sono checkpoint di recruitment police, la polizia che si occupa di aumentare gli effettivi dell’esercito attraverso la leva obbligatoria. La situazione è difficile.

Ci sarai, al Festival?
Sì, rimarrò a Lodi il weekend del 4 e del 5 di ottobre per la presentazione del mio reportage. Ventinove scatti realizzati fino a dicembre 2024; gli ultimi quattro a marzo di quest’anno. Son tornato sul campo sette volte, quasi sette mesi di permanenza in totale. Verso metà ottobre ripartirò per l’Ucraina. Perché il lavoro, ahimè quanto la guerra, continua.