di
Massimo Gaggi

I Ceo e i fondatori delle più importanti compagnie tecnologiche Usa alla Casa Bianca tra frecciatine e esibizione di forza. Assente Musk

«Grazie per essere un presidente così pro-business e pro innovazione. È un cambiamento essenziale che ci consentirà di avere a lungo un ruolo guida nel mondo, cosa che non sarebbe avvenuta senza la sua leadership». Parola di Sam Altman gran capo di OpenAI, davanti a Donald Trump. Mentre per Tim Cook, che ha ereditato da Steve Jobs la guida di Apple, il presidente è stato essenziale per «promuovere nuovi investimenti negli Stati Uniti, riportare in patria produzioni strategiche. E questo dice molto sulla sua leadership, il suo focus sull’innovazione».
   
C’erano una volta i masters of the universe: i capi della finanza di Wall Street considerati i padroni del mondo. Poi, dopo il crollo del 2008, quel ruolo di leader planetari era passato ai giganti della tecnologia, soprattutto Apple, Google, Meta-Facebook, Microsoft. Ieri sera i leader di quei gruppi hanno accettato un invito a cena alla Casa Bianca, ben consapevoli che Trump l’avrebbe organizzata come un’autocelebrazione. E ora fa una certa impressione vedere imprenditori che politicamente sono sempre stati considerati dei progressisti prostrarsi davanti a un leader non solo ultraconservatore e autoritario, ma che sta cambiando i connotati del capitalismo americano aumentando a dismisura l’interventismo statale.

Chissà, forse Sundar Pichai, capo di Google, la democraticissima azienda fondata un quarto di secolo fa sugli slogan buonisti di Larry Page e Sergey Brin, si è rassegnato al «bacio della pantofola» dopo aver sentito che l’India si è beccata dazi Usa al 50% non perché – come detto ufficialmente – compra petrolio dalla Russia (lo fanno in tanti, in misura enorme la Cina, senza essere puniti) ma perché il suo connazionale Narendra Modi (Pichai, naturalizzato americano, è nato e si è laureato in India) si è rifiutato di dare il suo sostegno alla proposta di conferire a Trump il Nobel per la Pace: la cosa alla quale, apparentemente, Donald tiene di più al mondo.



















































Trump lo ha ricompensato a modo suo per quella presenza: ha ricordato che il giudice che aveva condannato Google per condotte monopolistiche ha tuttavia evitato la sanzione più temuta: l’obbligo di cedere il suo browser, Chrome. Ha dato ad intendere di aver pesato su quella decisione e poi ha apostrofato il silente Pichai: «Lo sai che eri nei guai per un’iniziativa dell’Amministrazione Biden…». Vero, Biden ha rimesso in moto l’antitrust, ma il presidente ha dimenticato di aggiungere che, quando la «pratica» è passata alla nuova Amministrazione, il ministero della Giustizia repubblicano ha continuato a perseguire Google.
  
Alla cena – doveva essere l’inaugurazione del Rose Garden rinnovato, ma la pioggia ha costretto tutti in una salta interna – Trump ha voluto alla sua destra Mark Zuckerberg: il capo di Meta-Facebook che un anno fa di questi tempi aveva minacciato di sbattere in galera e buttare via la chiave se avesse usato, nella fase finale della campagna elettorale, le sue reti sociali per aiutare Kamala Harris. Il fondatore di Facebook aveva già inghiottito il rospo da tempo: era andato a omaggiare Trump a Mar-a-Lago subito dopo la sua elezione e, insieme agli altri capi di big tech, era stato tra gli ospiti d’onore della cerimonia d’inaugurazione della nuova presidenza, il 20 gennaio scorso. Deve aver pensato, come Altman e gli altri, che, con un presidente che mette le mani ovunque – dà e toglie commesse, spara dazi a raffica, impone all’Europa di non tassare le multinazionali Usa, gioca con gli incentivi alla tecnologia, magari trasformando un sussidio in una quota azionaria statale come ha fatto con Intel – è meglio non preoccuparsi troppo di salvare la faccia. Anche per lui, stando alla ricostruzione del Wall Street Journal, la serata è stata un calvario. Trump di punto in bianco gli ha detto che «questo è l’inizio della tua carriera politica», costringendo un Mark paonazzo a tirarsi indietro con una smorfia: «No, non è così». Poi una risposta evasiva «non ne so molto», quando Trump ha giudicato liberticide le norme inglesi che hanno portato alla detenzione di una donna che in rete aveva incitato all’odio contro i richiedenti asilo e invitato a incendiare le loro residenze.

Evidentemente il desiderio di di ottenere favori, o di evitare punizioni, ha spinto questi imprenditori – c’erano anche, tra gli altri, il Ceo di IBM, Arvind Krishna, quella di Oracle Safra Katz, mentre Microsoft era rappresentata da Bill Gates, fondatore e maggior azionista – a mettere da parte orgoglio e considerazioni di opportunità. Trump li ha ripagati dicendosi compiaciuto per aver radunato attorno a quel tavolo «un gruppo di persone con un elevato quoziente di intelligenza».
 
Hanno perso l’occasione di veder riconosciuto il loro elevato IQ i due «assenti eccellenti» della serata. Non c’era Elon Musk che, dopo la rottura traumatica con Trump, ha un po’ abbassato i toni ma non ha di certo ricucito e ora sanguina nel vedere i suoi nemici giurati, Zuckerberg e Altman, che l’hanno sostituito nel cuore del presidente. E non c’era il capo di Nvidia, Jensen Huang. Ma la sua non era di certo un’assenza polemica, visto che Trump gli ha appena concesso di vendere i suoi chip alla Cina, in cambio di una quota dei profitti aziendali. Ma, proprio per questo, per la forza della sua azienda e la tecnologia esclusiva dei suoi microprocessori, oggi Huang sembra guardare i colleghi di big tech dall’alto in basso. Lui, dicono i suoi, alla Casa Bianca preferisce andarci per incontri one to one.

5 settembre 2025