Fabrizio Minini ha 48 anni, è originario del Lago d’Iseo e lavora dal 2007 per la Croce Rossa internazionale. Specializzato in logistica, coordina i rifornimenti destinati a ospedali e personale medico nei contesti di guerra. Negli ultimi due anni ha operato a lungo nella Striscia di Gaza: una prima missione tra aprile e giugno 2024, poi una seconda da metà settembre fino alla primavera del 2025. Ad aprile di quest’anno è stato evacuato insieme ai colleghi, dopo la rottura unilaterale del cessate il fuoco da parte di Israele. Tornato in Italia, non si ferma: a breve partirà per una nuova missione in Ucraina, di stanza a Kiev. Lo abbiamo intervistato per raccogliere una testimonianza diretta sul genocidio in corso a Gaza.
Quando sei arrivato per la prima volta nella Striscia, che situazione hai trovato?
«Era già devastante. Rafah era diventata il punto di raccolta di tutti gli sfollati del nord della Striscia: una città piccola, poche decine di migliaia di abitanti, che improvvisamente si ritrovava a ospitare un milione e mezzo di persone. Non c’era cibo, pochissima acqua, nessuna logistica. Ogni spazio libero era coperto da tende, senza servizi igienici adeguati, con le conseguenze immaginabili. A confronto con quello che è successo dopo, però, quella situazione sembra oggi un paradiso».
Cos’è cambiato nei mesi successivi?
«A maggio 2024 Israele ha attaccato anche il sud, bombardando Rafah e costringendo la gente a spostarsi di nuovo. Ma in tutti i mesi che ho trascorso nella Striscia non ricordo un’ora, né di giorno né di notte, senza sentire bombardamenti. Hanno colpito ovunque, senza alcun rispetto per zone umanitarie, sedi di operatori internazionali o ospedali, compresi quelli organizzati dalla Croce Rossa. Arrivavano bombe a pochi metri dalle nostre sedi: un messaggio chiaro per dirci di andarcene. Lo stesso è accaduto a chiese e scuole».
Fabrizio Minini a Rafah, nella Striscia di Gaza
Quali conseguenze per il sistema sanitario?
«Tutte le università, tutte le scuole e quasi tutti gli ospedali sono stati distrutti. È rimasto solo il Nasser – quello tristemente noto per la strage dei giornalisti – e poi qualche struttura di ONG e Croce Rossa, ma qui parliamo di una sessantina di posti letto. Tutto il resto è stato reso inservibile. Il sistema sanitario è collassato: genitori che arrivano con i bambini malati non trovano cure, al massimo un antibiotico – se ancora disponibile – e poi vengono rispediti a casa. Intanto medici e infermieri affrontano triage continui, gestendo ondate di feriti dilaniati dalle bombe. Per loro, la pressione è disumana, insostenibile. Io stesso ho visto genitori portare in ospedale i loro figli pezzo per pezzo».
Ci sono scene che non riesce a dimenticare?
«Sì, soprattutto nel corridoio di Netzarim. Una striscia di terra trasformata in “dead zone”: chiunque transitasse veniva ucciso, uomini, donne, bambini, perfino gli animali. Io ci sono passato in convoglio e ho visto cadaveri dilaniati, lasciati lì a marcire, mangiati dai cani. E poi i bambini colpiti dai cecchini: arrivavano in ospedale con ferite precise al cuore e alla testa. Medici con cui ho parlato mi hanno confermato che sembrava quasi un gioco macabro: alcuni giorni i soldati sparavano scegliendo parti del corpo diverse, come se fosse una gara a punti».
Oltre alle bombe, la fame è diventata un’arma.
«Sì, è cosa nota ormai, anche le Nazioni Unite hanno confermato lo stato di carestia. Prima del 7 ottobre entravano a Gaza, al giorno, 500 camion di viveri e beni di prima necessità. Dopo, Israele ha chiuso i valichi: ne passavano otto. Poi, sotto pressione di Biden, sono diventati di più, ma ancora del tutto insufficienti per due milioni di persone. Era più propaganda mediatica che aiuto reale».
Bambini gazawi trasportano acqua (foto di Fabrizio Minini)
Con il cessate il fuoco di gennaio 2025 la situazione è migliorata?
«Tutt’altro. Il 19 gennaio la tregua doveva iniziare alle 7 del mattino, ma è slittata alle 11. Per dimostrare contrarietà, i soldati israeliani hanno bombardato diverse zone civili e in poche ore hanno ucciso 300 persone. Poi è stato riaperto il corridoio di Netzarim e la popolazione si è mossa in massa verso Gaza City, pur sapendo che non avrebbe trovato più nulla. Molti mi hanno detto: “Non ci interessa, vogliamo tornare a casa, anche solo per piantare una tenda sopra le nostre macerie”. La resilienza dei gazawi è inimmaginabile, da questo punto di vista non si daranno mai per vinti».
In quei giorni la Croce Rossa ha mediato anche gli scambi di prigionieri.
«Per ogni ostaggio israeliano venivano liberati 50 prigionieri palestinesi. Ma chiamarli prigionieri è riduttivo: sono veri e propri ostaggi, arrestati senza processo, molti sono minori, ragazzini poco più che bambini. La detenzione preventiva significa che l’esercito entra a casa tua, ti porta via senza accuse, senza avvocato, senza comunicazioni con la famiglia. Al primo scambio, i miei colleghi hanno visto gli ostaggi presi da Hamas in buone condizioni, mentre dai pullman provenienti da Israele abbiamo dovuto aiutare a scendere persone scheletriche, che pesavano meno di 40 chili. Mi hanno ricordato le immagini degli internati di Auschwitz».
Come si è interrotta la tregua?
«Tra il 17 e il 18 marzo l’aviazione israeliana ha rotto unilateralmente il cessate il fuoco. In poche ore hanno fatto 900 morti, più della metà donne e bambini, colpendo ovunque, anche il personale internazionale dell’ONU. Ricordo operatori francesi con arti amputati. Poi hanno centrato il nostro edificio: per fortuna eravamo ai piani bassi. Era chiaro che dovevamo andarcene. Hanno ucciso anche 15 operatori sanitari della Croce Rossa palestinese, mentre soccorrevano dei feriti; lavoravano in stretto coordinamento con noi. Da quel momento, quando è stato evacuato il grosso delle organizzazioni internazionali, anche noi abbiamo dovuto lasciare lo staff che ancora lavorava negli ospedali».
Una tendopoli di sfollati nel sud della Striscia (foto di Fabrizio Minini)
Come vengono gestiti oggi gli aiuti umanitari?
«La gestione è lasciata in esclusiva agli Stati Uniti (e quindi a Israele) tramite la Gaza Humanitarian Foundation. Prima gli approvvigionamenti venivano distribuiti in circa 400 punti, oggi in due soli. E spesso si trasformano in trappole: le persone affamate si accalcano e i soldati sparano sulla folla. Ma il cibo continua a mancare. I miei colleghi mi raccontano che mangiano una volta ogni due o tre giorni, mentre i bambini arrivano a ingoiare sabbia pur di ingannare la fame. Non entra più nulla, nemmeno materiale medico. L’elenco dei crimini di guerra è infinito: l’ultimo, in ordine di tempo, è quello dei double tap strike: bombardano una zona, aspettano l’arrivo dei soccorritori e poi colpiscono di nuovo, decimando protezione civile e personale medico».
E l’Occidente resta immobile.
«Israele fa tutto questo sapendo di avere totale impunità, grazie al supporto statunitense. È una sfida al mondo: mostrano i loro crimini su Instagram e TikTok, come per dire che non temono nulla. Dopo Abu Ghraib nessuno si sarebbe più esposto in questo modo, perché rischiavi grosso. Loro no. E se le accuse diventano troppo pressanti, giocano la carta dell’antisemitismo».
Cosa pensa della posizione del governo italiano?
«Mi chiedo cosa dirà la premier Meloni, che è anche madre, quando sua figlia (oggi ha 9 anni, ndr) le chiederà cosa ha fatto per fermare questa carneficina. Nulla. Anzi, come il resto d’Europa, ha continuato con gli scambi commerciali e la vendita di armi. Non si può dire “non sapevamo”, come durante il nazismo: oggi i video e le foto dei massacri arrivano in tempo reale, ogni minuto, da quasi due anni. Qualcosa però si muove: anche in zone tradizionalmente chiuse a questi temi, come le valli bresciane da cui provengo, ho visto tante bandiere palestinesi».
Secondo lei qual è l’obiettivo finale di Israele?
«Probabilmente rinchiudere la popolazione nelle cosiddette “città umanitarie” al sud, perché sterminare due milioni di persone è tecnicamente complicato, anche godendo di impunità totale. Poi si prenderanno la quasi totalità della Striscia, di cui ora restano solo macerie, e lì si insedieranno. Ma i palestinesi non se ne andranno: piuttosto sono disposti a morire, perché sanno che non riavranno mai più la loro terra, e nessun paese arabo è vuole accoglierli; sarebbe una rogna enorme, come già accaduto negli anni ’80. In quelle “città umanitarie” useranno sistemi di intelligenza artificiale per schedare ogni abitante: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Gli uomini in età da combattimento saranno quasi tutti assassinati, considerati membri di Hamas, e i sopravvissuti deportati altrove, in campi di detenzione e tortura come accade attualmente a Sde Teiman, nel deserto del Negev. Li lasceranno marcire là dentro, fino a quando verranno ritenuti inoffensivi».