Un’utopia rovesciata, Parigi divisa in tre zone, un algoritmo che decide chi è colpevole e chi innocente. Con Chien 51, presentato fuori concorso come film di chiusura, Cédric Jimenez firma un thriller politico e tragico che interroga il nostro presente: Gilles Lellouche e Adèle Exarchopoulos incarnano due anime in cerca di redenzione in una città sorvegliata da un dio senza volto chiamato ALMA
Parigi non è più la capitale delle luci ma un organismo malato, sezionato in tre zone impermeabili, attraversabili solo con permessi e checkpoint. Un incubo urbano che non ha bisogno di volare nel futuro remoto: basta spingere lo sguardo sul nostro presente e gonfiarlo fino allo spasmo. Nella visione di Cédric Jimenez, la metropoli diventa un corpo diviso, dove ricchi e poveri abitano universi che non comunicano, come pianeti lontani orbitanti nello stesso spazio.
È in questo scenario claustrofobico che si muovono i protagonisti di Chien 51, film di chiusura dell’82esima Mostra del Cinema di Venezia (TUTTI I PREMI), figure che cercano di salvarsi in un paesaggio dove la libertà non è più un diritto ma una concessione calcolata da un’intelligenza artificiale.
ALMA, dio senza volto
ALMA, questo il nome dell’algoritmo che governa la sicurezza, ricostruisce i delitti, anticipa i sospetti, calcola probabilità di colpevolezza. È onnisciente e onnipresente, una divinità laica che sostituisce la coscienza umana con la matematica dell’inevitabile. Ma che cosa resta della giustizia, quando il destino è scritto da una macchina priva di anima? Jimenez mette in scena l’incubo più attuale: la delega della nostra umanità a un calcolatore che non conosce pietà.
L’omicidio del suo stesso creatore apre la crepa. L’architetto del sistema viene ucciso, e l’algoritmo che pretende di prevedere tutto non ha previsto nulla. È da qui che inizia il thriller, un giallo che diventa allegoria.
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Salia e Zem, amore e sacrificio
Salia (Adèle Exarchopoulos, al solito di una bravura e di una bellezza abbacinanti) è l’agente d’élite, disciplinata e feroce come un’arma perfetta. Zem (Gilles Lellouche) è il poliziotto stanco, il cane randagio che ha perso fiducia nel proprio mestiere. Insieme formano una coppia impossibile, due poli opposti costretti a collaborare. Ma sotto la superficie del poliziesco, Jimenez cesella la storia di un amore tragico, un legame che nasce sotto il segno del sacrificio.
Qui riecheggia Sofocle, citato esplicitamente dal regista: “Molte sono le meraviglie, eppure nulla è più portentoso dell’uomo”. Lellouche e Exarchopoulos incarnano due anime ferite che tentano di resistere a un destino che sembra già scritto. Il thriller diventa tragedia classica, il genere si veste di mito.
Una scena di musica e respiro
In mezzo a tanta tensione, Jimenez inserisce un momento sospeso che vale da solo il prezzo del film: una scena sublime, un intervallo che alleggerisce il peso di un racconto dolente e crepuscolare. Dopo aver tracannato shot come se fossero antidoti contro la disperazione, Salia e Zem finiscono in un locale di karaoke (sì, nel 2040, l’anno in cui il film è ambientato esistono ancora). In quello spazio ludico, due corpi estranei che la società ha separato trovano un punto di contatto grazie al pop: cantano insieme What’s Up? delle 4 Non Blondes, e in quel coro stonato si accende una scintilla di umanità. Il cinema si fa rito collettivo, ballata fragile, e i due personaggi, così lontani, trovano finalmente un respiro comune.
E poi, in un contrappunto struggente, i titoli di coda ci lasciano con il capolavoro Wish You Were Here dei Pink Floyd (1975): un addio musicale che suona come elegia, come un saluto malinconico rivolto non a un futuro lontano, ma al nostro presente già incrinato.
Una distopia del presente
Girato tra Parigi, Marsiglia e set costruiti per l’occasione, con un budget imponente da 40 milioni di euro, Chien 51 è il progetto più ambizioso della carriera di Jimenez. Non è fantascienza lontana, ma un “presente aumentato”, come lo definisce lui stesso. I droni che sorvegliano, i quartieri che non comunicano, i checkpoint che dividono: non sono invenzioni, ma amplificazioni del nostro quotidiano.
Il regista mostra una distopia che non si nasconde dietro astronavi o futuri intergalattici, ma si limita a spingere l’oggi un passo più in là. E proprio per questo colpisce al cuore: riconosciamo i segni, li vediamo già nelle nostre città, nei nostri algoritmi che decidono cosa vediamo, cosa compriamo, chi siamo.
il coro degli attori
Attorno a Lellouche ed Exarchopoulos si muove un cast corale di lusso: Louis Garrel, Romain Duris, Valeria Bruni Tedeschi, Artus, Stéphane Bak, persino un cameo musicale di Thomas Bangalter. Ognuno è pedina di una scacchiera più grande, in cui l’individuo è sempre sacrificabile. Jimenez dirige i suoi interpreti come un coro tragico, voci che si intrecciano a ricordare che non esiste più un protagonista unico, ma solo il sistema.
Il cane che ulula al presente
Chien 51 chiude Venezia come un monito. Non è soltanto un film di genere elegante e spettacolare, con effetti visivi grandiosi e scene di massa che coinvolgono centinaia di comparse. È una tragedia travestita da thriller, un avvertimento che guarda al futuro per parlarci dell’oggi.
Il “cane” evocato dal titolo non è più soltanto il poliziotto dei film precedenti di Jimenez, ma l’uomo stesso, ridotto a numero, a codice, a dato. Un cane che ulula al presente, alla sua incapacità di difendersi da un potere che scivola via dalle mani dell’uomo per finire in quelle di un dio senza volto.
Con Chien 51, Jimenez chiude non solo la Mostra, ma anche la sua trilogia sulla polizia, e lo fa con un’opera che vibra di inquietudine. Un film che lascia lo spettatore con la consapevolezza amara che il futuro non è mai stato così vicino.
Se fosse un cocktail
Se fosse un cocktail, Chien 51 sarebbe un French 75, nato a Parigi durante la Grande Guerra: gin, succo di limone, zucchero e champagne. Un drink che prende il nome da un cannone, perché la sua esplosione in gola è rapida e brutale, come una deflagrazione. È un cocktail che unisce l’amaro del gin all’eleganza dello champagne, l’acidità al brio, la guerra alla festa. Proprio come Salia e Zem, due anime crepuscolari che trovano un momento di respiro cantando What’s Up? in un karaoke, prima che i Pink Floyd suggellino l’addio con Wish You Were Here. Un brindisi fragile in un mondo diviso in zone, dove anche la musica diventa ultimo rifugio di umanità.
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