Presentato a Venezia Classici, il film di Yves Montmayeur accompagna lo spettatore in un labirinto incantato, tra Guadalajara e Parigi, per esplorare l’immaginario mostruoso e umanista di Guillermo del Toro. Con le voci di David Cronenberg, Junji Ito ed Eugenio Caballero, intreccia mostri, arte e spiritualità, svelando le radici culturali e personali del regista messicano
Sangre del Toro non è soltanto un titolo evocativo, ma una chiave simbolica: il sangue del toro, creatura di forza e sacrificio, diventa metafora del cinema di Guillermo del Toro, da sempre popolato da mostri, vittime e outsider. Presentato nella sezione Venezia Classici della 82esima Mostra del Cinema (LA DIRETTA), il documentario di Yves Montmayeur si propone come un viaggio iniziatico: dall’infanzia barocca a Guadalajara ai corridoi segreti di musei parigini, il regista messicano si mostra come un Minotauro benevolo, guida e custode del proprio labirinto artistico.
L’esposizione come atto rivelatore
Il cuore pulsante del film è l’esposizione En Casa Con Mis Monstruos, allestita nel 2019 a Guadalajara. In quell’occasione del Toro aprì il suo personale gabinetto delle meraviglie, fatto di ex voto, reliquie religiose, pupazzi, disegni e oggetti macabri. Montmayeur trasforma questa mostra in un percorso cinematografico, alternando interviste e riprese delle opere con inserti dai film più celebri: da Il labirinto del fauno a La forma dell’acqua, passando per Hellboy. Non si tratta di un inventario filologico, ma di un mosaico poetico, in cui ogni immagine è un tassello di un immaginario più grande.
La morte come compagna di viaggio
Nel commento del regista, emerge con forza il tema che attraversa tutto il cinema di del Toro: la morte come presenza costante, radicata nella cultura messicana e nella sua dimensione sincretica, tra eredità precolombiana e cattolicesimo coloniale. Il film sottolinea come questo rapporto ancestrale abbia nutrito la sensibilità del cineasta, che fin da bambino si è confrontato con malattie, lutti e creature fantastiche. Non a caso, le sue storie non sono mai semplici favole dell’orrore, ma parabole di sacrificio e redenzione.
Oltre il cinema: le influenze artistiche
Montmayeur non si limita a celebrare i successi di del Toro, ma scava nelle sue passioni e nelle influenze che hanno plasmato la sua visione. Appaiono figure come David Cronenberg, maestro della mutazione del corpo, il mangaka Junji Ito, re del terrore illustrato, e l’anatomista settecentesco Honoré Fragonard, che trasformava i cadaveri in spettacoli estetici. Del Toro, con la sua consueta umiltà, si inserisce in questa catena di artisti che dialogano attraverso i secoli, riconoscendo di essere soltanto un anello del grande racconto dell’arte.
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Luci e ombre del ritratto
Sangre del Toro non è un’analisi sistematica dei film di del Toro. Chi cerca un racconto ordinato, cronologico e ricco di aneddoti potrebbe rimanere deluso. Montmayeur sceglie la via dell’intuizione e del frammento, affidandosi a suggestioni più che a spiegazioni. Del Toro stesso, pur generoso e brillante, resta spesso sul vago: parla di infanzia infelice e di ossessioni personali, ma senza mai aprirsi del tutto. È un compagno di viaggio affascinante, ma non vulnerabile.
L’attesa per Frankenstein
Il documentario si chiude con uno sguardo sul prossimo progetto del regista: Frankenstein. Del Toro racconta la sua adorazione per il romanzo di Mary Shelley, in cui vede un canto per gli emarginati, gli stessi che hanno abitato la sua filmografia. Il cerchio si chiude: dai mostri amati da bambino al mostro per eccellenza della letteratura gotica, simbolo di un’umanità ferita ma irriducibile.
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Se fosse un cocktail
Se Sangre del Toro fosse un cocktail, avrebbe il colore rosso intenso del sangue e la densità barocca di Guadalajara. Sarebbe un Mezcal Negroni, dove l’amaro dell’Italia incontra il fumo messicano, addolcito da un tocco di vermouth e infuocato da scorza d’arancia bruciata. Un sorso che unisce morte e rinascita, sacro e profano, mostruoso e incantato: il drink perfetto per evocare i labirinti di Guillermo del Toro, tra sacrificio e meraviglia.
Un atto d’amore
Sangre del Toro è, prima di tutto, un atto d’amore verso un artista che ha trasformato i suoi demoni interiori in creature di bellezza universale. Montmayeur firma un ritratto non esaustivo, ma vibrante, che restituisce la gioia infantile e la profondità filosofica di Guillermo del Toro. Un film che invita lo spettatore a perdersi nel labirinto dei mostri per ritrovare, alla fine, il senso più puro dell’arte: quella scintilla che del Toro stesso definisce “l’unica vera prova di magia nel mondo”.
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