di Manuela Croci

La figlia del campione morto un anno fa affida a un libro i ricordi più intimi della loro vita. La vita a Torino, gli amici calciatori, la sorella avuta da un’altra donna. Poi le attenzioni («Mi cambiava il pannolino») e le assenze («Prometteva di essere più presente, ma non c’era»). Fino agli ultimi giorni

«Di papà i primissimi ricordi sono legati ai momenti passati nella casa di Torino. È lì che torna la mia memoria. Ero piccola e lui giocava nella Juventus: il suo sorriso, i ritagli di tempo trascorsi insieme, gli abbracci… di quel periodo mi torna in mente tutto. Le camere, la cucina, il salotto accogliente, il giorno in cui mi hanno insegnato ad allacciarmi le scarpe, le babysitter e poi nonna e zia Santa che venivano a stare con noi bambini quando anche le mogli seguivano i giocatori in trasferta. Mamma racconta che mi portava spesso allo stadio, anche da piccola, e che – dopo “mamma” e “papà” – ho imparato a dire “Totò-Gol”».

Comincia così l’incontro con Jessica Schillaci, primogenita di Totò, il campione dal viso scarno e gli occhi grandi che 35 anni fa ha trascinato a suon di gol la Nazionale di Azeglio Vicini fino alla semifinale di Italia 90. È stato il Mondiale delle “Notti magiche”, quello in cui l’attaccante siciliano, morto a Palermo il 18 settembre 2024 a soli 59 anni, fu la vera rivelazione segnando sei reti (miglior marcatore), caricandosi sulle spalle gli Azzurri fino a mettere al collo la medaglia di bronzo e regalandosi la gioia di un secondo posto al Pallone d’Oro, alle spalle del tedesco Lothar Matthäus che quel mondiale italiano l’ha conquistato.



















































Jessica Schillaci: «ci sono state pause nel rapporto con papà, ma ci siamo ritrovati era meravigliosamente imperfetto»

Che papà è stato Totò Schillaci?
«Quando ero molto piccola, davvero premuroso. Mi cambiava il pannolino, mi preparava la cena e se di notte mi svegliavo – e lui era a casa – arrivava subito. Certo, è stato un papà assente, questo l’ha sempre saputo anche lui: un po’ per il lavoro e un po’ per il carattere che aveva, non si sentiva mai all’altezza. Però quando trascorrevamo del tempo insieme, quello era tempo di qualità. Prendeva me e mio fratello Mattia e ci portava in sala giochi, al minigolf oppure al mare. Con lui giocava tantissimo anche a pallone».

E con lei, niente calcio?
«Non mi ha mai appassionato troppo. Mi piace tantissimo andare allo stadio, l’anno scorso sono stata più volte a vedere il Palermo e mi sono divertita. Davanti alla Tv invece un po’ mi annoio».

Anche quando gioca la Nazionale?
«No, no. Il Mondiale rapisce la mia attenzione, in quel caso adoro guardare le partite in compagnia. Per Italia 90 ero troppo piccola, avevo solo 2 anni, ma ricordo molto bene quello del 2006, è stato travolgente: avevo 18 anni, mi diplomavo, stavo prendendo la patente… quante emozioni quell’estate».

Nel libro Solo io posso scrivere di te (Cairo), in uscita il 12 settembre, inizia raccontando le ultime ore di vita di suo padre.
«Ho dei ricordi molto vividi di ogni giorno che sono stata in ospedale con lui, fino alla sera prima di morire abbiamo parlato tanto. Poi è entrato come in coma e quando il mattino dopo ho sentito che se ne stava andando ho staccato la mia mano dalla sua, l’ho lasciato libero. Gli tenevo sempre la sinistra, dove c’era una piccola stella disegnata».

Aveva tanti tatuaggi?
«Sì, gli piacevano. Non era solito spiegare il significato di quei tratti, solo uno incredibilmente era chiaro: sul polso destro, ormai sbiadite dal tempo, c’erano tre lettere – J, M, N – erano le iniziali di noi figli».

Lei è un’infermiera, ha capito subito la gravità della situazione.
«Il suo calvario è durato più di tre anni, nell’aprile 2024 ho compreso che non aveva più tanto tempo».

Perché ha deciso di dedicargli un libro?
«Non so esattamente, me lo sono chiesta più volte anch’io. Quando papà era in vita, ho pensato diverse volte di mettere nero su bianco una mia biografia parlando anche dei miei genitori. Sono laureata in Lettere e la scrittura è sempre stata una mia passione. Credo che chi comincia a scrivere qualcosa lo faccia perché ha un dolore dentro».

Qual era il suo?
«Nel mio caso si tratta di una perdita, ma può essere anche un amore non corrisposto o un’amicizia che si spezza. Io combattevo la tristezza scrivendo: abbozzavo pensieri sparsi sul cellulare, sul computer, sul tablet e capivo che stavo meglio. Quando papà è morto ho letto tutto quello che è stato scritto su di lui e mi sembrava mancasse sempre qualcosa, quello che lui e noi avevamo vissuto veramente. Per me è stata come una cura»

In che senso?
«Mi sedevo la domenica al pc, accendevo la musica, piangevo e trasformavo in parole i ricordi per non dimenticare gli ultimi giorni passati con lui. Giorni che considero un regalo che la vita mi ha fatto perché ho avuto la possibilità di dire addio al mio papà. Non è una cosa così scontata».

Nel libro scrive: “Se avessi potuto scegliere di averti come papà senza fama, lo avrei fatto, perché quella stessa fama ha dato tanto ma si è presa troppo”.
«Lui c’era e non c’era (spiega con la voce rotta dall’emozione). Prometteva che sarebbe stato più presente, ma poi queste promesse non si concretizzavano. Non lo faceva per cattiveria. Papà manteneva i piedi per terra, ma c’erano ritiri, allenamenti, partite, premiazioni, presenze da dover rispettare… e quando sei giovane dici “deve essere mio padre a cercarmi”».

Poi si cresce.
«Ora mi rendo conto che tantissime volte sarei potuta andare incontro alle sue mancanze. Ci sono state delle pause nel nostro rapporto, ma per fortuna abbiamo avuto il tempo di ritrovarci. Il giorno delle mie nozze, nel 2017, era al mio fianco, stava bene ed era bellissimo. Fino all’ultimo ha mantenuto il fisico e quel volto inconfondibile da giovane uomo. Quando poi ho scoperto che era malato, non l’ho lasciato. Anche se io vivevo a Verona e lui era a Palermo, eravamo più uniti che mai. C’era un filo che ci legava».

L’ha definito un padre meravigliosamente imperfetto.
«Nelle sue imperfezioni era unico. Faceva le cose sempre mosso dall’istinto, proprio come quando giocava sul calpo da calcio. Ci sorprendeva, e talvolta ci deludeva, però la settimana dopo era capace di presentarsi con una sorpresa che ci riempiva il cuore».

Nel 1997 smise di giocare, a quel punto siete riusciti a trascorrere più tempo insieme?
«Ricordo che ero a cavallo tra le scuole medie e le superiori, è stato uno dei periodi più belli e concreti: andavamo a fare shopping insieme, delle mini vacanze e ci portava spesso in barca. Una passione che accomunava anche me e Mattia. Poi io mi sono trasferita a Verona e ci siamo allontanati un po’. Ma lui era attento: se veniva in zona per qualche premiazione o una serata, mi chiedeva di accompagnarlo e l’anno prima di morire mi ha portato con lui a Celebrity Chef, il programma di Alessandro Borghese perché sapeva della mia passione per la cucina. Possono sembrare piccole cose, ma sono invece la dimostrazione di voler trascorrere tempo insieme. Ed è stato importante».

«UNA DELLE PRIME PAROLE CHE HO IMPARATO È STATA “TOTÒ-GOL”. MI PORTAVANO SPESSO ALLO STADIO. ITALIA 90 È STATA UN SOGNO PER LUI»

Ha un fratello e una sorella, che rapporto avete?
«Un po’ per lavoro un po’ per motivi familiari viviamo lontani, ma siamo molto legati. Soprattutto Mattia, che fa l’odontoiatra, è parecchio protettivo nei confronti di noi due, ora vuole fare un po’ le veci di papà. Gli somiglia tantissimo: alcuni atteggiamenti, il modo di camminare e di vestire sono praticamente identici. Io e lui abbiamo solo due anni di differenza, Nicole invece è del 2000 e vive in Svizzera con sua madre. È la piccola della famiglia. Nel libro racconto la sua nascita, ricordo esattamente tutto di quei mesi: all’inizio è stata dura da accettare perché papà non è stato subito sincero, si vergognava a dirci che aspettava un figlio da una donna che non era mamma. Adesso ho un bellissimo rapporto anche con Prisca, la madre di mia sorella».

Sono passati 35 anni da Italia 90, cosa le raccontava suo padre di quei giorni in cui ha fatto impazzire di gioia tutta la Penisola?
«Diceva che per lui è stato un sogno, che aveva la sensazione di non vivere la realtà. Papà non si sentiva quasi mai all’altezza e aver indossato la maglia della Nazionale con le persone che lo riconoscevano ovunque, le sue foto sui giornali, i tifosi a invocarlo dentro e fuori lo stadio, la Juventus che lo aspettava a braccia aperte… era andato tutto molto oltre le sue aspettative».

«DA LUI HO IMPARATO LA CULTURA DEL LAVORO, L’IMPEGNO PER RAGGIUNGERE UN OBIETTIVO. MIO PAPÀ NON SI SENTIVA MAI ALL’ALTEZZA…»

Come si sono incontrati i suoi genitori?
«La prima volta che si sono visti è stato a una corsa organizzata dalla scuola. Mia zia Rosalia vinse tra le ragazze proprio davanti a mia mamma; papà vinse tra i ragazzi».

Erano proprio piccoli.
«Dei bambini. Poi, qualche anno dopo zio Giuseppe, il fratello di papà, doveva uscire a cena con una ragazza e lei gli aveva detto che avrebbe portato un’amica – mia madre – così lo zio chiese a papà di accompagnarlo. Entrambi mi hanno detto che è stato un colpo di fulmine. Io non credo nei colpi di fulmine, ma loro erano veramente innamorati e hanno avuto una bellissima storia d’amore, molto passionale».

Ma non sempre serena.
«Nonostante si siano lasciati e nonostante papà abbia ammesso vari tradimenti, hanno avuto grande intelligenza e non hanno mai detto nulla uno contro l’altro: si sono rispettati e voluti bene come dei fratelli».

«CON MAMMA HANNO FATTO LA “FUITINA”, È STATO UN AMORE MOLTO PASSIONALE. DOPO LA SEPARAZIONE SI SONO RISPETTATI E VOLUTI BENE COME FRATELLI»

Visto che il matrimonio tardava ad arrivare, hanno fatto la “fuitina”.
«Eh, sì. Quando hanno deciso di sposarsi papà è andato da nonno Leonardo a chiedere la mano della figlia: si è vestito bene e si è presentato a casa. Ma nonno non si fidava e ci ha messo un po’ a dirgli di sì. Ottenuto finalmente il via libera e iniziati i preparativi, sei messi prima della data stabilita sono scappati. Avevano fretta. Mia nonna, che vive ancora nella stessa casa di allora a Messina, racconta che mio padre andava sotto il balcone quasi tutte le sere e faceva serenate a mia mamma cantando Baglioni e Ramazzotti. Non deve essere stato un bel sentire, era davvero stonato (si lascia andare a un sorriso)».

Suo padre ha vissuto a Palermo e a Messina: era molto affezionato a entrambe.
«Palermo è la città dove ha iniziato e chiuso la sua vita. Ha trascorso ore e ore al campo da calcio anche dopo aver concluso la carriera: andava a guardare i ragazzi giocare, aveva sempre una parola, un consiglio – se richiesto –, un sorriso. A Messina ancora adesso impazziscono per lui: ha riportato la squadra in B dopo tantissimi anni, ne è stato capitano. Per la partita della promozione c’erano quasi 30mila persone allo stadio».

Un compagno di squadra a cui era particolarmente legato?
«Sono due, in realtà: Baggio e Tacconi. Quest’ultima è un’amicizia che continua ancora oggi con una forma diversa: Andrea, il figlio di Stefano, è il miglior amico di mio fratello».

E una persona del mondo del calcio che l’ha deluso?
«Gli ho fatto tante volte questa domanda, così come gli ho chiesto per che squadra davvero facesse il tifo, ma niente. Non mi ha dato mai nessuna risposta. Lui è, anzi era…, devo ancora imparare a parlare al passato, era veramente neutrale e considerava tutti come colleghi e amici. Piccole divergenze ci sono state certo, si è scritto di Baggio e del pugno, ma erano tutte cose che si ricomponevano. Liti o antipatie non erano per lui».

Sempre nel libro scrive: “Il tuo cognome è l’eredità che mi hai lasciato. Un’eredità che racconta una storia”. Ce la racconta?
«È una storia fatta di valori che mi porto dentro, esperienze che mi hanno insegnato lui e mamma. L’ umiltà, il volare basso e, soprattutto, la sua genuinità fanno parte di me. Se papà pensava una cosa, la diceva. Senza meditare troppo sulle conseguenze. Era così, come lo vedevi, senza filtri, sotterfugi, giochetti: un uomo umile che aveva sofferto e che aveva conquistato il suo sogno lavorando. Questo mi è rimasto di lui: la cultura del lavoro, l’impegno e la dedizione per raggiungere un obiettivo. Mi rivedo tanto in lui. Lo faccio ogni giorno con i miei pazienti. Per medici e infermieri gli ultimi non sono stati anni facili. Ringrazio papà, se sono così lo devo a lui». 

CHI È 

La vita
Salvatore Schillaci, per tutti Totò, è nato a Palermo il 1° dicembre 1964 ed è morto nella stessa città il 18 settembre 2024 a 59 anni, per un tumore. Si è sposato una prima volta con Rita Bonaccorso da cui ha avuto due figli: Jessica (1988) e Mattia (1990). Da un’altra relazione, nel 2000 è nata Nicole; mentre nel 2012 ha sposato Barbara Lombardo.

La carriera
Ha vestito le maglie di Messina, Juventus e Inter. Nel 1990 è stato il simbolo della Nazionale arrivata terza al Mondiale conquistando il titolo di capocannoniere con 6 reti e arrivando secondo nella corsa al Pallone d’Oro.

Il libro
In occasione del primo anniversario dalla morte, la figlia maggiore Jessica presenta il libro Solo io posso scrivere di te (Cairo editore), che arriverà nelle librerie a partire dal 12 settembre

7 settembre 2025