Nel film di Roberto Andò, Ferdinando Scianna ricorda che quando suo nonno gli chiese cosa avrebbe voluto fare da grande e lui rispose “il fotografo”, il nonno rimase per un po’ in silenzio e poi disse: “Il fotografo? Quello che ammazza i vivi e fa resuscitare i morti”. Quella definizione è rimasta a lungo nella testa di quel ragazzino che sarebbe presto diventato uno dei più importanti fotografi italiani, ma non solo fotografo perché presto diventa inviato speciale da Parigi per il settimanale “L’Europeo” e poi scrive per “Le Monde Diplomatique”: fotografo e giornalista assieme, cosa assai rara in quel mondo. A Parigi conosce e diventa amico del celebre Henri Cartier-Bresson che nel 1982 lo introduce nella più importante agenzia pubblicitaria internazionale, la Magnum Photos, primo italiano ad esservi ammesso. 

APPROFONDIMENTI


Roberto Andò, nel documentario “Ferdinando Scianna il fotografo dell’ombra” presentato fuori concorso, costruisce un ritratto che segue visivamente il rapporto di luce e ombre che è il tratto caratteristico del lavoro del fotografo: «Ferdinando è prima di tutto un mio grande amico – spiega il regista – e io volevo fare qualcosa che fosse congeniale al suo lavoro, di trovare una forma che entrasse in sintonia con il suo modo e stile di ritrarre il mondo, il significato morale del suo lavoro. Ed è per questo che ho scelto il bianco e nero che permette in fondo di ridurre, o ampliare, il rapporto tra la luce e l’ombra». 

Uomo di facile parola, siciliano verace, Scianna delinea nel documentario la sua idea del lavoro di fotografo-reporter, mostrando di disprezzare prima di tutto le foto di moda che bloccano le modelle in pose innaturali, fredde, da manichini, perché il compito della fotografia è di essere “uno strappo di vita”, un’immagine che svela la realtà, deve riportarla “in luce” pur nelle sue ombre. 

«Una volta Berengo Gardin – ricorda – mi raccontò che Ugo Mulas gli fece vedere le sue fotografie e lui ad ognuna diceva “bella, bellissima”; al che Mulas si fermò, lo guardò negli occhi e gli disse: “Se non la smetti di dire bella, bellissima ti caccio via perché le foto belle non servono a nessuno e non migliorano il mondo e quelle brutte lo peggiorano”. Aveva ragione perché anche io penso che una foto serva per farci comprendere qualcosa, se racconta, pur in una singola immagine, il mondo. Se c’è solo la forma non serve a niente».

VERITÀ

E di foto che svelano con un solo scatto la realtà, Scianna ne ha firmate molte nei suoi reportage che hanno fatto la storia della fotografia italiana, ma ha realizzato anche celebri ritratti di personaggi famosi come quello a Borges in cui è riuscito a dare della cecità dello scrittore una forma metafisica. 
«Il fotografo guarda il mondo e ogni tanto ne riconosce un istante significativo – sostiene – significativo sul piano del racconto, e naturalmente tanto di più la forma lo accompagna tanto di più e di più significante viene raccontato. Insomma, per me foto e racconto è veramente un sinonimo. Non ho mai pensato alla fotografia altrimenti che così». 

Eppure il fotografo si rifiuta di definire il suo lavoro come una forma d’arte che per lui, lo dice nel film, è qualcosa che si può riservare a un quadro di Piero della Francesca, a una madonna di Giotto davanti alla quale pregavano i poveri credenti e abbelliva una chiesa. Per Scianna prima di tutto vi deve essere una «responsabilità morale del fotografo nei confronti del mondo».

Una responsabilità che, secondo Andò, sta venendo sempre meno e ancor più allorché le immagini vengono create dall’intelligenza artificiale: «Siamo giunti in un’epoca – dice – in cui le immagini sembrano più nascondere che rivelare e la realtà sembra sul punto di sparire. Siamo già in piena rivoluzione e io se volessi potrei fare una film senza muovermi di casa usando il computer, ma mi mancherebbe la vita, non avrei più le emozioni che mi dà il contatto con il mondo reale. Le foto di Scianna non potrebbero essere fatte da un computer, ci vuole uno sguardo, una sensibilità che una macchina non potrà mai dare. Purtroppo, sono convinto che presto o tardi non ci saranno più fotografi, resteranno solo i reporter di guerra».