Una donna sfuggente e affascinante che ci viene raccontata attraverso gli occhi di chi l’ha incontrata, nelle diverse fasi della sua vita è al centro de Il primo desiderio, l’ultimo libro di Rossella Milione (Pompei, 1979) una delle voci più sofisticate nel panorama letterario contemporaneo. Scrittrice, nonché fondatrice di Cattedrale, un osservatorio dedicato al racconto, genere da lei amato e praticato, che abbiamo incontrato per approfondirne l’opera e fare una panoramica sullo stato della scrittura (e della lettura) in Italia.
Intervista a Rossella Milone
Qual è oggi lo stato di salute del racconto italiano?
Sopravvive. Il racconto negli ultimi decenni, nonostante la forte tradizione della novellistica italiana, ha subito una discriminazione rispetto al romanzo, considerato il fratello maggiore di valenza letteraria migliore. In realtà il racconto è una forma a sé stante, con le sue caratteristiche e particolarità, una creatura sofisticata, bistrattata dagli editori che lo hanno confinato in fondo agli scaffali. Oggi il racconto vanta numerosissimi autori di rilievo, che indagano la letteratura nella sua forma più sofisticata, solo che non sempre trova voce sui giornali, nei premi, nelle librerie. Ultimamente questo trend si è un po’ modificato: sono nate case editrici specifiche dedicate solo alle forme brevi, riviste, blog; l’attenzione alla short story ha ripreso un suo picco negli ultimi quattro, cinque anni, forse grazie anche al lavoro che negli ambienti editoriali abbiamo fatto con altre realtà dedicate a questa forma. Ma in questi ultimi due anni mi pare di percepire di nuovo una tendenza in negativo: gestendo l’Osservatorio ci accorgiamo delle oscillazioni che il racconto subisce nell’imbuto del mercato editoriale, e ultimamente mi pare che sia ritornato un po’ in affanno, per diversissimi motivi.
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Il tuo ultimo lavoro, pubblicato ad aprile da Neri Pozza, “Il primo desiderio” è un “romanzo in racconti”. Ovvero?
Nel mondo anglosassone questo tipo di forma è molto più praticata e riconosciuta che da noi; si chiama short story cycle, ed è un ibrido tra romanzo e raccolta di racconti. Questi tipi di libri hanno la caratteristica di essere scritti attraverso dei racconti, prendendo quindi dalla forma breve la sua peculiare forma, ma attingono anche dal romanzo, perché tutti questi racconti/capitoli sono in qualche modo collegati e connessi tra loro – a seconda di come l’autore vuole allacciarli, e in base alla sua abilità. La difficoltà, ma anche il fascino, è quella di mantenere l’autonomia e la compiutezza dei singoli racconti, e, allo stesso tempo, aprirli anche al romanzo e alle sue possibilità. Se si posseggono gli strumenti, scriverli è divertentissimo! E anche per il lettore è un’esperienza appagante, perché è come leggere due libri in uno, godendo del meglio di entrambe le forme.
Perché hai scelto questa struttura?
Per due motivi. Perché la forma breve mi appartiene come scrittrice, soprattutto quella del racconto lungo, che lascia aperte molte più sottotrame di quello breve; è una forma che sento aderente al mio sguardo, al mio modo di entrare in relazione con le cose che voglio raccontare. Ma mi serviva anche una struttura che mi permettesse di tenere lo sguardo su un gruppo di persone ben specifico che si sfiorano in un arco temporale molto lungo. Questa struttura mi ha permesso di lasciare autonomi e indipendenti – che sono anche i tratti fondanti della mia protagonista, Isabel – i singoli episodi che volevo mettere in luce, inserendoli però in una cornice ampia e compatta, all’interno della quale il lettore può costruire in autonomia il tempo che scorre per ogni singolo personaggio, ricomporre il puzzle man mano che si addentra nei racconti/capitoli.
Gli animali sono molto presenti nelle storie e sono figure particolarmente reali e concrete (dietro c’è uno studio approfondito e… persino una consulenza veterinaria). Qual è il loro ruolo nel libro e più in generale nella tua scrittura? È una suggestione o qualcosa di più?
È una costante dei miei libri, sulla quale mi sono fermata a ragionare perché in effetti me lo hanno fatto notare tutti! Non lo so. Lo scrittore non è uno psicologo e non deve comprendere perché, ma come, e poi accoglierlo, investigarlo. Credo che la mia vita sia sempre stata immersa nel mondo animale – mio padre era etologo e zoologo – ed essendo sempre stata una figlia unica solitaria e contemplativa, forse il mondo animale mi ha permesso di entrare in relazione con quello umano. La sua selvaticità, la sua primordialità, la ferocia ma anche la sua estrema dolcezza e resilienza, è qualcosa che appartiene anche al mio modo di scrivere, o, almeno, a ciò che investigo quando scrivo. Quindi gli animali non sono solo presenze allegoriche che mi aiutano a correlare la narrazione a un livello simbolico più profondo, ma sono soprattutto un nervo principale della narrazione stessa, elementi che mi permettono di ragionare, di pormi domande, di scavare più a fondo, al pari di qualsiasi altro personaggio.
La fragilità è un tema ricorrente nel libro. Dalla fragilità delle bomboniere di ceramica (nel capitolo Animaletti) agli animali della savana a rischio di estinzione (nel capitolo di apertura Il custode dei randagi). La vulnerabilità ci attrae e ci spaventa? È qualcosa che riguarda anche noi?
Quando ho cominciato a scrivere il libro, come spesso mi accade, non sapevo bene dove stavo andando a parare; lo si capisce man mano che la scrittura ti svela quale nervo ti interessa raccontare, qual è l’urgenza di quella specifica storia. Quando avevo già scritto qualche capitolo, ho finalmente capito che questo libro stava parlando di salvezza, di pericoli scampati, del sollievo che si prova quando ci si libera di un rischio, o di un malessere, e si tira un sospiro di sollievo. Allora ho ragionato che eravamo da poco usciti dalla pandemia, e che stavo scrivendo a circa un annetto dallo scoppio della guerra in Ucraina. Ecco, credo che questo senso di vulnerabilità e spavento, e anche il sollievo dopo il Covid, abbia influito sulla scrittura, intercettando la consapevolezza che il mondo è una creatura che stiamo rendendo sempre più fragile, e che se il mondo è in pericolo, lo siamo anche noi.
Rossella Milione. Photo Chiara Pasqualini
Il corpo umano e la sua fisicità, come fonte di piacere e di dolore, ha un ruolo importante in questo e anche in molti altri tuoi libri (in primis “Nella pancia, sulla schiena, tra le mani” Laterza, 2011). Mani sporche, corpi malati, violati, esibiti, celebrati. Cosa può dire il corpo di un personaggio e della sua storia?
Anche questa è una cosa che mi viene detta spesso, ed è sicuramente un’altra peculiarità di come sto sulla pagina. Molto poco con l’intelletto e assai col corpo. Sicuramente non sono un tipo di scrittrice che incontra i suoi personaggi e le sue storie solo attraverso un dispositivo intellettuale; anzi, per me scrivere non è affatto un lavoro intellettuale, ma che si fa coi sensi, con la carne, con le ferite e la pelle sbucciata. Cechov diceva che per scrivere bisogna sporcarsi le mani di fango e Rosa Montero scrive che durante la stesura di un romanzo le è capitato di perdere i capelli. D’altronde credo che non si possa raccontare una vita e il mondo, se quel mondo e quella vita non la conosci, e come si fa a conoscere il mondo se non attraverso i sensi? Così che fanno i bambini, così fanno gli animali. Ovviamente è un’estremizzazione: c’è tutto un lavoro di cognizione emotiva e intellettuale che lo scrittore è tenuto a fare. Ma questo atto primordiale di consapevolezza viva della fisicità delle nostre esistenze, io credo, un autore non lo deve perdere: è lì che si nasconde la visione sorgiva e genuina della sua voce.
La storia di Isabel e degli altri personaggi affronta “l’eterna tensione tra senso di sradicamento e brama di appartenenza”. Hai spesso scritto di affetti familiari, legami preziosi che possono però anche trasformarsi in catene che ci imprigionano (come in “Poche parole, moltissime cose” Einaudi, 2013). Come si raccontano questi conflitti insolubili? Salvarsi vuol dire essere liberi?
Isabel si salva perché è libera. Lei crede di ambire a liberarsi da alcuni precetti sociali, dalle limitazioni che la famiglia o l’ambiente le impongono, di districarsi dalle aspettative, soprattutto spogliarsi dalle convenzioni che per lei sono il tratto distintivo di una società tossica e tirannica. Lei pensa che agendo come agisce nel libro, si libera da tutto ciò, che se ne salvi. Ma, in realtà, lei può farlo perché ha dentro di sé già parte di questa libertà. Infatti alcuni dei personaggi del libro a lei vicini, non riescono in questa emancipazione, e quelli che ci provano, ma non hanno gli stessi strumenti di Isabel, finiscono molto, molto male. Il libro si interroga anche su questo: come fanno gli individui a recuperare le chance necessarie alla sopravvivenza? Quanto dobbiamo guadagnarci e quanto siamo destinati ad avere? E lo sguardo dell’altro quanto ci imprigiona, e quanto ci libera?
A proposito di appartenenza, qual è il tuo rapporto con Napoli e le tue radici? Napoli è sempre in qualche modo presente nella tua scrittura?
Quando ho iniziato a scrivere, da giovane, non riuscivo a nominare Napoli nei miei racconti. La evocavo, a volte, ma non le davo mai un nome, molto più spesso me ne allontanavo. È stata Anna Maria Ortese – cioè, i suoi libri – che mi ha istruita su come entrare nella città, su come guardarla e raccontarla. Il primo racconto che ho scritto in cui Napoli c’è tutta, nella sua bellezza e nella sua miseria, con tutto il suo nome, si chiama L’ospedale delle bambole (è contenuto nella mia prima raccolta, Prendetevi cura delle bambine, pubblicata da Avagliano). Sono molto legata a quel testo perché per me è stato uno spartiacque nel mio modo di raccontare il mondo, ma anche di stare nelle mie radici. Ora che vivo a Roma, ritorno, sulla pagina, spesso lì: nemmeno a Napoli, ma a San Giorgio a Cremano, sotto al Vesuvio, dove sono cresciuta. Il mio immaginario si è formato gran parte lì, ed è lì che sono sedimentate le domande che spesso vado a interrogare nelle mie storie. Non è un processo asfittico, ho bisogno anche di evadere per guardare meglio: per esempio nel libro si va anche in Kenia, a Dublino, nelle Dolomiti… ma la radice di quello che si è quando sei uno scrittore non lo puoi ignorare, e io non sono napoletana, ma vesuviana.
In Italia non si acquistano molti libri e nei primi 4 mesi di quest’anno c’è stato un ulteriore calo nel mercato (flessione del 3,6% dati AIE). Un motivo per andare a comprarne subito uno?
Per quello che ho detto in una delle prime risposte. Perché se viviamo in un mondo in pericolo, siamo in pericolo anche noi. E leggere ci aiuta, se non proprio a evitare i pericoli, ad attraversali.
Torniamo ai desideri. Chiudi gli occhi ed esprimine uno…
Che chi ha letto questa intervista vada a comprare un buon libro!
Ludovica Del Bono
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