di
Marta Ghezzi
Una variazione del celebre quadro, un piccolo acquerello pensato come dono all’amica Negroni Prati Morosini. Il prefetto dell’Ambrosiana Marco Navoni «Non uno studio preparatorio ma un d’après»
L’originale, davanti a cui perfino le coppie più compassate cedono e si lasciano trasportare dal rito del selfie, è a Brera. L’ipotesi di qualche critico è che «Il bacio» di Francesco Hayez sia diventato iconico solo in epoca recente, con la spinta della citazione nel film «Senso» di Luchino Visconti, dove si vedono i due protagonisti — Livia Serpieri interpretata da Alida Valli, e il tenente Franz, l’americano Farley Granger — baciarsi con lo stesso trasporto e nella stessa posizione dei due giovani del quadro. Dobbiamo crederci? Non è che quel bacio sia (forse) il più famoso al mondo perché evoca, molto più di altri, la sensualità dell’amore?
Piuttosto: avevamo giustamente pensato fosse unico, fino alla mostra dedicata, una decina di anni fa, dalle Gallerie d’Italia ad Hayez. In quell’occasione è emersa la furbizia del ritrattista, che di baci ne aveva dipinti altri due, tele ora di proprietà di collezionisti privati, con minime varianti, la tinta della veste femminile, l’inserimento di un velo a terra. Ancora sbagliavamo, esiste un «Bacio» numero quattro, custodito alla Pinacoteca Ambrosiana. Un acquerello su carta di dimensioni minuscole, inserito in un ovale, con l’illustre firma «Hayez Fran.co» sulla destra.
Purtroppo poco conosciuto. Sembra che, come sempre, la colpa sia della fretta con cui si visitano i musei. L’ala ottocentesca della Pinacoteca è meno esplorata della parte dedicata alle opere antiche, e chi raggiunge la sala con la spettacolare vetrata sul cortile, inspiegabilmente compie un deciso dietrofront. Perdendo così il «Bacio» in scala ridotta. Marco Navoni, prefetto dell’Ambrosiana, spiega che «non si tratta di uno studio preparatorio ma di un d’après del dipinto», e ne sottolinea «la fedeltà rispetto all’originale, tranne che per il fondo semplificato». Non è l’unico Hayez della sala, e sono proprio i quattro austeri ritratti della famiglia Negroni Prati Morosini a permettere di ricostruire l’origine dell’acquerello. «Nel 1853 Hayez ritrae la contessa Giuseppina Negroni Prati Morosini e il marito Alessandro, sono amici, più tardi poseranno per lui anche i genitori, è quindi probabile che Hayez abbia voluto omaggiare Giuseppina con un cadeaux, il piccolo Bacio. È stato un erede, Vincenzo Prati Morosini, a donarli nel 1962 alla Pinacoteca».
Al secondo piano c’è la «Natura morta con strumenti musicali» di Evaristo Baschenis: un tavolo coperto da un drappo rosso, una spinetta, un liuto, uno spartito, una freccia e una mela. Perché correre qui, in un’antisala, per un’opera di metà Seicento, scura, cupa? Navone suggerisce di accostarsi al quadro. «Solo a distanza ravvicinata si riesce a cogliere l’abilità tecnica del pittore bergamasco, la coltre di polvere sulla mandora, lo strumento di destra, che raffigura la caducità della vita, è così verosimile che viene la tentazione di alzare la mano per toglierla». L’ultimo passaggio è dalla Sala dei Fiamminghi, non per i capolavori di Brueghel e Bril ma per il «Trionfo di Davide», incisione del maestro olandese Luca di Leida. «Appartiene al fondo originario di Federico Borromeo, che non era riuscito a individuarne l’autore e il titolo, e raffigura il giovane Davide che porta in trionfo la gigantesca testa di Golia. La particolarità di quest’opera è la materia: non è una tela, non è rame, si tratta di vetro, dipinto al contrario. Raro e meraviglioso».
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8 settembre 2025
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