di Marco Marino –
Voglio scrivere del nuovo film di Franco Maresco, Un film fatto per Bene, appena arrivato nelle sale cinematografiche, ma prima è necessario che vi racconti il contesto in cui sono andato a vederlo.
Immaginatevi la città di Monza il giorno prima del Gran Premio. Non si riesce a camminare per le strade, tanta è la folla. Tutti indossano qualcosa firmato Ferrari. Solo un berretto, in questi giorni, costa sessanta euro. La città è piena di auto da corsa in esposizione, simulatori di gara, dj set, go-kart, e potrei continuare.
Al cinema, invece, il deserto. Ho visto il film di Maresco in una proiezione che potrei definire «privata». Ero così tanto solo che nessuno si era accorto della mia presenza: a metà del film è entrata addirittura un’addetta alle pulizie che, vendendomi, ha trovato un ostacolo alle sue intenzioni. Alla fine, capendo che non me ne sarei andato, ha posticipato il lavoro.
Tutto perfettamente in linea con quanto sempre sostenuto dal regista di Cinico TV, e confermato in quest’ultima pellicola: da una parte, il regno dei morti viventi, dotati per l’occasione di un cappellino della Ferrari; dall’altra, la fine di qualsiasi ambizione artistica, soprattutto se legata al cinema. Il successo, d’altronde, direbbe Maresco, è indice di qualcosa che non va, di qualcosa di storto, di una natura malata.
I suoi film, infatti, non si occupano del successo, non c’è mai il compiacimento del trionfo; piuttosto insistono a indagare la genesi, e lo sviluppo, del fallimento. Principalmente, quello umano. Per questo, all’inizio, quando rimestavo dentro di me la visione di Un film fatto per Bene, credevo di aver assistito al Maresco abituale, niente di nuovo, insomma, un nuovo affondo sull’argomento, ma niente di originale.
Poi, sia chiaro, per me qualsiasi cosa partorita da Maresco si ammanta di un certo valore sentimentale, e non potrebbe essere diversamente: mi condiziona lo sguardo fin dall’adolescenza, quando guardavo su YouTube i brandelli rimasti di Cinico TV e leggevo le analisi di Giorgio Vasta che ne esploravano la profondità e ne decifravano la profezia.
Eppure, eppure, eppure, stavolta mi stavo sonoramente sbagliando.
Perché Un film fatto per Bene non è un altro film sul fallimento o la fine di una trilogia cominciata con Belluscone e proseguita con La mafia non è più quella di una volta. E non è nemmeno un peana per la morte del cinema. Nulla di tutto questo.
Franco Maresco ha realizzato, con questa sua ultima fatica, un film sulla santità.
E faccio subito una puntualizzazione: per santità non intendo nulla di ascrivibile all’universo, e alla frequentazione, di santi e madonne. Lo stesso regista gioca molto con queste rappresentazioni devozionistiche, quasi ossessivamente, ma è una forma di superfetazione e non ci deve trarre in inganno.
Per santità mi riferisco a quel concetto proprio del pensiero di Carmelo Bene, il cosiddetto de-pensamento, che per tutta la pellicola Maresco cerca di ispirare ai suoi attori. L’opposto del pensiero, lo svuotamento della ragione, la profonda connessione con il corpo, anzi con le membra, soprattutto quelle più basse (Maresco, in questo, è scatologico ed escatologico insieme).
Questa esperienza di de-pensamento, durante la visione del film, trova plasticità nella rappresentazione di Bernardo Greco, che veste i panni di San Giuseppe da Copertino.
Com’è, infatti, il San Giuseppe di Bernardo Greco? È un idiota. Un totale idiota. Che, etimologicamente, significa che è una persona priva del mondo, della sua cultura, della sua irrequietezza, delle sue ansie, delle sue velocità, dei suoi infingimenti. Un idiota è, etimologicamente, uno spazio vuoto. Un idiota è un puro. Sembra dirci, Maresco, che la santità può essere raggiunta solo attraverso il de-pensamento, che alla purezza si perviene solo tramite l’idiozia, unica strada in grado di alleggerirci dal peso di questa esistenza. Unica strada che ci permette financo di volare, come San Giuseppe da Copertino, di alzarci da terra e vedere le cose da una prospettiva diversa, superiore.
E noi che strada vogliamo scegliere per le nostre vite?
Quella che ci ancora a terra, fatta di preoccupazioni, piena di tecnologie inutili, di scadenze, liti, incomprensioni? Oppure quella che ci libera, che ci introduce allo svuotamento, alla kenosis, e ci insegna l’arte della levitazione?
Maresco si è, forse, definitivamente, «rotto le palle» di questo «porco mondo». Non ci restano tante alternative. Diventare più idioti, quindi diventare più santi.
La mistica di Franco Maresco ci viene consegnata come nuova profezia da osservare per i tempi che verranno.