di
Giovanna Cavalli e Aldo Cazzullo

Il cantautore: «Papà poliziotto vide un fagotto con le mie tutine, e disse: non nasconderti, vestiti come vuoi. Parlai di Covid in una canzone nel 1983»

Renato Zero, su di lei girano storie che secondo noi sono troppo belle per essere vere.
«Sentiamo».

Quella di Patty Pravo che torna al Piper e non viene riconosciuta è sicuramente inventata.
«Invece è vera! Intanto non si chiamava Patty Pravo ma Nicoletta Strambelli. Sparì. E riapparve bionda platino, su una Rolls Royce bianca guidata da un nero in livrea, con due giganteschi cani al guinzaglio. Con Loredana, Mimì, Roberto ci dicemmo: “Ma chi è ‘sta vamp? Sarà americana?”. Nessuno sapeva chi fosse. Soltanto Mario Barba, il factotum del Piper, inquadrandola con le luci dalla sua guardiola la riconobbe: “A’ Nicolè, ma come te sei vestita?”. Così capimmo. La vamp americana era la Strambelli».



















































Roberto è D’Agostino. Davvero sfondaste una vetrina a via Veneto con la vostra 500 e vi portarono al Policlinico, lui nel reparto maschile, lei in quello femminile?
«Anche questa è vera. Guidava un nostro amico, alto un metro e mezzo. Sbandò e la 500 rotolò sul marciapiede. La vetrina che sfondammo era quella di Scifoni, celebre negozio di pompe funebri, in via Sicilia. Uscii dal tettuccio della 500 e pensai: “Sono già un angelo”. Avevo una tutina attillata, i capelli neri lunghi, e sì, mi portarono nel reparto femminile, inseguito da Roberto che gridava: “C’è un errore! È un uomo! A’ Renatì, faje vedè er pisello!”».

Loredana è la Bertè. Lucio Dalla raccontava che una volta a New York lei rischiò di farle saltare il matrimonio con Roberto Berger.
«In effetti Loredana, raggiante, stava per sposarsi. Eravamo a cena in un ristorante di Manhattan, di fronte avevo il padre di Roberto Berger, il re del caffè Hag, un miliardario. Parlava dell’Italia con sufficienza, io gli dissi che si sbagliava, che diceva bugie come Pinocchio, che da lì a poco gli si sarebbe allungato il naso. Quello si infuriò. Finimmo per litigare, con Loredana che mi rimproverava: “Non ti ci porto più!”. In realtà avevo ragione io. Il matrimonio finì in fretta».

Quella volta che le presentò Panatta.
«Appuntamento a piazza Venezia. Mi ero messo proprio sotto al balcone del duce. Accostarono con la 500. Lei gli aveva detto: “Stasera ti faccio conoscere mio fratello”. Adriano mi guardò. Ero vestito appariscente, alla mia maniera: stivali, tuta, mantello. “Non sarà mica questo?”. E lei, entusiasta: “Sì, certo!”».

Avete fatto pace, dopo anni di silenzio.
«Loredana è una persona amabile, con una sua anima bella, ma a volte non è stata all’appuntamento con la generosità, con il rispetto. Abbiamo avuto dei contrasti e io mi sono allontanato. Ritenevo che la mia assenza le avrebbe giovato. Quando c’ero io, lei magari mandava a quel paese qualcuno e io intervenivo: “Non te le devi prendere, sai, lei ha questo carattere”. Insomma, la coprivo. Senza di me è cambiata da così a così, è diventata più gentile, paziente. Me ne prendo un po’ il merito».

Chi ha cercato chi?
«Lei ha capito che era arrivato il momento di riconsegnarmi la Loredana che volevo. In un paio di interviste ha detto che desiderava il mio ritorno. Così ho fatto un blitz a La Spezia, al suo concerto. Alla fine sono pure salito sul palco, mi sono buttato e l’ho abbracciata».

È vero pure che lei usciva di casa in borghese e nell’androne si vestiva da Renato Zero, per non farsi scoprire dal padre poliziotto?
«Abitavo nella casa di una cooperativa di poliziotti. Erano 136. Un giorno mio padre mi sorprese con un fagotto. “Che hai lì dentro?”. “Nulla papà”. “Fammi vedere”. Con imbarazzo ho aperto il sacchetto. C’era qualche boa di piume, qualche tutina di lurex. Mi disse: “Non hai più bisogno di nasconderti, vestiti come vuoi, da domani esci così”».

Come si chiamava papà?
«Domenico. Era l’undicesimo figlio di una famiglia di contadini e di pastori di Villa d’Aria, sopra Serrapetrona, nelle Marche, dove fanno la vernaccia. Su quella montagna ho sempre avvertito una presenza divina. C’è qualcosa di magnetico, che ti invita alla meditazione. E si spiega anche come mai mio nonno ne fece undici: perché era molto ispirato».

La portavano sempre in commissariato.
«Venivano al Piper a fare le retate. Quando arrivava il carrettone capivamo e ci salivamo sopra spontaneamente. Erano convinti che fossimo tutti terroristi o drogati».

Sbagliavano? Anche sulla droga?
«Non ho mai avuto la curiosità, avevo già questa energia forte in dotazione, non cercavo altro. Una volta inalai del fumo senza volerlo. Stavo con due amici. In auto si fecero un cannone con l’olio indiano. Io ero seduto dietro. Vuoi? No, grazie. Quando sono tornato a casa sentivo il letto che mi risucchiava. Allora ho chiamato Mimì. “Il letto mi risucchia”. E lei: “Ma dormi, non rompere i coglioni”. Però continuava. Così alla fine ho telefonato a papà, mi ha portato al Fatebenefratelli, all’Isola Tiberina. Mi hanno dato i tranquillanti e finalmente sono riuscito a riposare».

E in commissariato cosa succedeva?
«Cascavo sempre in quello di mio padre: “’N’artra vorta qua?”. Sotto i baffi si divertiva».

Ha preso botte?
«Tante. Mai dalla polizia».

Insulti per strada.
«Una volta uno di questi ragazzi di borgata mi cominciò ad aggredire verbalmente. Io sono tornato indietro. Gli chiesi: “Ti ho fatto qualcosa di male? Che cos’è di me che non ti piace, se nemmeno mi conosci?”. Mi ci sono messo a parlare. Dopo un po’ lui fece agli amici: “Vabbè, annamosene”. Un giorno venne da me. “Questo è il numero di telefono di casa mia. Se qualcuno ti dà fastidio, tu chiamami”. Un paio di volte l’ho cercato. Non sapete come li hanno addobbati a quegli altri».

È vero che Claudio Villa era un suo parente?
«No. Ma mia madre di cognome si chiamava Pica, come la sua. Glielo raccontai quando ci incontrammo alla Rca, e lui la volle conoscere. Ci invitò sulla sua barca, appuntamento al molo di Viareggio. Ci ritrovammo tra centinaia di barche, tutte uguali. Come riconoscere quella di Claudio Villa? Finalmente ne trovammo una di gran lusso ma con i panni appesi ad asciugare. Era la sua. Era rimasto un popolano romano».

Come si chiamava sua mamma?
«Ada. Ada si chiama ora la mia nipotina, figlia di Roberto, mio figlio adottivo. La decisione finale di adottarlo l’ho presa quando l’ho trovato in slip che aiutava mia madre, seduta su uno sgabello, a fare la doccia. Una vera prova d’amore. Ho anche un’altra nipotina, Virginia. Hanno 18 e 20 anni».

Mario Tronti era suo parente per davvero.
«Era cugino di mamma. Lo rivedo nella sua casa modesta ma piena di libri, sull’Ostiense, curvo sulle carte: pareva un vecchio già da ragazzo. Un piccolo Gramsci».

Tanti anni fa, parlando con il Corriere, lei diede una definizione poetica del comunismo.
«Ho sempre pensato che il comunismo fosse un padre che torna a casa dal lavoro, posa sul tavolo un pane, l’olio, il vino, e con quello che ha messo da parte compra un libro a suo figlio».

È ancora di sinistra? Cosa vota?
«Non voto. Mi presenterei senza fiducia, preferisco stare a casa. Rimpiango gli anni ’60 e ’70, quando si rubava di meno e i politici avevano tre lauree. Gente che sapeva di dover difendere gli operai, le classi disagiate».

Che le pare di Elly Schlein?
«Mah».

Non è la leader giusta?
«Io vedo il quotidiano. L’assetto attuale del Paese. Con un sud che è ancora escluso e un nord che fatica a ripartire la proprie ricchezze in parti uguali».

E la Meloni?
«I meloni mi piacciono solo con il prosciutto».

Parliamo delle sue canzoni. «Mi vendo». Ai tempi fu un testo molto forte.
«Starebbe bene oggi. Un mio difetto è che ho anticipato troppo i tempi. La spesa la facciamo tutti. Ognuno si porge e qualcuno deve acquisire di quella persona un determinato fabbisogno organico, sentimentale. Adesso con i social, con gli influencer, è tutto un vendere e acquistare».

Cosa c’è di autobiografico in quella canzone? Ha conosciuto il mondo della prostituzione?
«Ho avuto amici transessuali soprattutto a Napoli. A parte Romina Cecconi, detta la Romanina, con cui ci sentiamo sempre, quante ne ha passate. Conobbi il gruppo delle Coccinelle. A Natale mi venivano a tenere il panariello con i numeri della tombola, a casa mia alla Camilluccia. E poi cantavano: “Mammà, mammà, me diceva: certe cose nun l’hai a fa” e io mi ammazzavo dal ridere».

Lei ha scritto testi straordinari, come Amico: il sole muore già, e di noi questa notte avrà pietà…
«Quando scrivo certe frasi, certi testi, sono sicuro che c’è qualcuno che mi tiene la mano sulla testa. Mica è gratis eh. Prima o poi mi arriverà la fattura».

«Triangolo».
«Lo avevo considerato. Una volta è successo, ma ce n’era uno di troppo. Infatti canto: “Lui chi è?”. Allora il giudizio era meno severo, facevi esperienze a tuo rischio e pericolo e mettevi via».

Qualcuno dice che lei ha pure predetto il Covid.
«Non posso credere che nell’83 ho scritto questa roba qua: “Pericolo di contagio/che nessuno esca dalla città, guai a chi s’azzarda/a guardare laggiù/oltre quel muro/oltre il futuro/l’epidemia che si spande/l’isolamento è un dovere oramai”».

La criticano perché dopo l’esordio provocatorio ha scelto la melodia. Un ritorno all’ordine.
«Fino a un certo punto. Ho scritto certi brani sull’amore in cui sono andato giù pesante: “Ho visto farlo in piedi, al buio, in macchina o in una toilette, ho visto consumarlo in fretta come una tazza di caffè, ho visto darlo via così, senza poesia, triste, malato e giù, da non poterne più”. Non c’è compiacimento, fare il ruffiano è l’ultimo dei miei desideri».

«L’OraZero» è il nuovo album.
«Racconto che siamo tutti soldati, nostro malgrado. In una guerra che non è solo quella che riguarda un nemico in particolare, ma anche quella che spesso abbiamo dentro di noi. L’OraZero significa che adesso siamo ancora in grado di acquisire una coscienza e una consapevolezza delle responsabilità che dovremmo prenderci nei confronti di quello che succede nel mondo, oggi che ci troviamo la guerra dentro casa. Ma chi ve l’ha chiesta?».

La sua prima volta.
«Ero solo. Poi ho scoperto che soli si sta bene. E tutto sommato questa esigenza di andare a fare esperienze non l’ho mai sentita».

Fidanzato con Enrica Bonaccorti.
«Il nostro è stato un percorso meraviglioso, che non teneva conto solo di un’esigenza fisica, era uno scambio continuo di emozioni. Mi ha aiutato molto. Conobbe un mecenate, mi fece fare un disco, che ahimè non rese quello che costò. Il primo aveva venduto venti copie, tanti quanti erano i parenti. Questo qui me lo produsse Gianni Boncompagni. “Però ti devi trovare un nome. Fiacchini non va bene”. Risposi: “Fiacchini è fiacco, vale poco, vale zero”. “Ecco, ti chiamerai Renato Zero».

Le chiese di sposarla, così racconta lei.
«Non mi sovviene che ci fossero questi presupposti. Con Enrica non è mai finita, il rapporto si può trasformare, gli attribuisci una carica diversa, che non è solo quella dell’amante. Certe vicinanze non vanno perdute. Invece i maschi all’anagrafe non capiscono altri ruoli. Se non gliela dai, hai perso».

Ora è malata.
«L’ho sentita. Tenace, meravigliosamente ostinata. Non ha intenzione di mollare».

Com’è andata nel complesso con l’amore?
«Molto bene, non ho mai preteso, solo dato. Sono stato in credito, non in debito. Il fatto di essere solo poi è relativo. Lucy Morante, che è stata la mia compagna da sempre, è ancora qui, gioca un ruolo importante. Ha vissuto con me la gavetta, vendeva i miei dischi durante i concerti. Donne come lei non ce ne sono quasi più. Ha sposato me e il mio personaggio. Ha condiviso il mio lavoro e le mie scelte. Non c’è bisogno del prete per suggellare questo tipo di rapporto».

Gli uomini?
«Vi dico francamente. Ho amiche donne che non mi sognerei mai di averli con i pantaloni o le fattezze di un uomo. Quando la donna decide di allearsi, si butta e basta, l’uomo purtroppo lo fa sempre per un tornaconto».

I migliori anni della sua vita.
«Quelli dell’infanzia, dell’adolescenza, privi di pensieri e di problemi».

A scuola dalle suore del Sacro Cuore.

«La madre superiora, grata a papà, non ci fece pagare una lira, a me e a mia sorella. Sedevamo al banco con i figli dei blasonati. Ma all’ora di pranzo loro avevano un cestino misero, noi la pastasciutta che ci portava mamma. ’Sti pori ragazzini sentivano il profumo e ci guardavano con una certa invidia».

Al Folkstudio con un unico ammiratore.
«Il proprietario mi fa: “Lasciamo perdere, riproviamo domani”. Ma io avevo già salutato i miei. Era il 24 dicembre. Pensai: “A casa non ci torno”. E salii sul palco con la mia 12 corde. Antonello Venditti, forse commosso, si mise al pianoforte e cantò un pezzo anche lui».

Renato Zero e Venditti sul palco per un solo spettatore.
«Che tornò la sera dopo portando venti persone. Ho iniziato così».

Regalò il cilindro a Rino Gaetano.
«Era un cilindro che si apriva a scatto. E pure un bastone. Ci andò a Sanremo a cantare Gianna. Si vantava, era felice come una creatura. Eravamo molto amici. Qualcuno una volta mi disse: “Sai, Rino gli dà un po’ troppo giù con l’alcol”. Si palesò in lui un’insicurezza. Il Rino divertente che con me sciorinava barzellette improvvisamente veniva colto da un velo di malinconia, di solitudine. L’ho capito forse troppo tardi».

Ha un debole per Ultimo.
«Sua mamma Anna e lo zio Ciro li conobbi molto tempo prima. Quando abbiamo scoperto che questo ragazzo aveva da dire qualcosa in musica, per me è stata una soddisfazione come se fosse uno di famiglia».

Ma rifiutò di raccomandarlo.
«Vero. E ora mi ringrazia. Quando fai un’operazione del genere, è come se mettessi un paletto nella personalità e nella convinzione dell’artista. Non va bene. Infatti io ringrazio quelli che non mi hanno aiutato nel brano che apre il nuovo album».

Chi ha stimato di più tra i suoi colleghi?
«Non voglio fare classifiche. Ma sapere dell’esistenza di De André, di Guccini, di Lucio Dalla mi ha rincuorato. Posso metterci anche Leo Ferré, grande poeta».

E Gino Paoli?
«Ecco qui dobbiamo aprire un capitolo a parte. Con Paoli, Bindi, Endrigo, Lauzi e Tenco. Quella è un’altra cifra, stratosferica. Molte delle loro canzoni hanno anche aperto le menti, aiutato il coraggio. Sono stati per l’Italia quel che in Francia erano Moustaki, Brel, Bécaud, Aznavour».

Tifoso di calcio?
«Non frequento lo stadio, ma sono romanista più di quelli che si vanno a scazzottare. Una volta ci andai con Enzo, il papà di Totti. Dalla tribuna mandava improperi al figlio che si era fatto sgambettare».

Pure Totti è un sorcino?
«Come no, è venuto al concerto».

All’Argentario era vicino di casa di Raffaella Carrà.
«Mi manca. Organizzava tornei di burraco, tresette, scopone scientifico. Abbiamo fatto insieme una bellissima tv. Una volta mi mandò sulla Mole Antonelliana, io che soffro di vertigini. L’ascensore era sospeso nel nulla. “Quando torno a Roma ti faccio vedere i sorci verdi” le dissi».

Crede nell’Aldilà?
«Credo che da come ti comporti qui si decide se gli occhi li chiuderai per sempre o li riaprirai in un’altra dimensione».

Ha paura della morte?
«Più perdi le persone care, meno temi la morte. Hai paura quando hai tutti qua. Quando se ne vanno genitori, nonni, tanti di quegli amici ai quali sei affezionato, cominci a pensare che devi andare di là, se vuoi recuperarli. Quando salgo sul palco, sento sempre la spinta dietro di tutti questi che mi dicono: “A’ Renatì, faje vedé chi sei”».

A quali amici pensa?
«Mimì, Lucio Dalla, Claudio Villa. Tanti altri non famosi. Ogni tanto ai miei spettacoli leggo tutti i nomi di chi non c’è più ma che ha fatto tanto per la gente. Anche a Napoli. Magari manco li ho conosciuti, però mi piace ricordarli. I fratelli De Filippo, Totò — che chiamo col vero nome, principe Antonio De Curtis — Pino Daniele, Troisi, Eduardo Scarpetta, Raffaele Viviani».

Le manca qualcuno accanto? La solitudine è un peso?
«No, a volte la cerco proprio io, ne ho bisogno. Invece dei rimpianti, vado a ritrovare emozioni che ho perso. Ognuno di noi, soprattutto a questa altezza del calendario, si guarda indietro e pensa: “Che peccato”. Ma è normale. Anche il mio angelo custode ha 75 anni. Non corre più, non gli va di fare un cavolo, sta sempre in panchina, ha le alucce mosce».

22 ottobre 2025