di
Anna Fregonara

Circa la metà delle persone che inizia un programma di esercizio lo interrompe entro sei mesi. Lo smartwatch può essere un incentivo, ma poi va «messo al suo posto» e devono intervenire altre motivazioni

Milioni di uomini e donne in tutto il mondo corrono, pedalano, sollevano pesi, nuotano o camminano con lo smartphone in mano e un’app attiva. Non è solo sport: è anche condivisione, su piattaforme che riuniscono appassionati di ogni disciplina, del proprio percorso, dell’altitudine, della velocità, del tempo, della frequenza cardiaca, delle calorie o di una foto. L’allenamento non si chiude con l’ultimo esercizio, ma continua sullo schermo, tra statistiche, commenti, «pollici su» e classifiche. 
Per alcuni pubblicare i propri risultati sulle app è uno stimolo, un modo per sentirsi parte di una comunità, trovare motivazione e rincontrare vecchie amicizie sulla base di nuovi interessi. Per altri, invece, può trasformarsi in una fonte di pressione: c’è chi evita di condividere se la prestazione non è all’altezza, chi teme il confronto. «La questione non è tanto – o soltanto – l’ansia da prestazione, quanto il fatto che queste persone si «denudano» a livello prestazionale, mostrando se stesse e i propri limiti di fronte a un’intera comunità», spiega Stefano Tamorri, psichiatra, medico e psicologo dello sport, responsabile branca Neuropsichiatrica dell’Istituto di Medicina e Scienza dello Sport del Coni. «Se all’inizio condividere i risultati può essere piacevole, con il tempo può trasformarsi, sul piano soggettivo, in una sorta di stigma. Perché se, da una parte, rendere visibile ciò che si sta facendo può rinforzare la motivazione, dall’altra, quando i risultati tardano ad arrivare o faticano a mantenersi, l’esposizione può diventare una denuncia dei propri limiti. E ciò genera ansia, allarme, insicurezza, togliendo il piacere di fare qualcosa per sé e per il proprio benessere».

Riconoscere i propri limiti

Questa fragilità nel rapporto con la performance e con il giudizio altrui affonda spesso le sue radici in un lavoro poco accurato sugli obiettivi personali, nella difficoltà a calibrare ciò che ci si aspetta da se stessi.
«Molte persone possono migliorare nel definire con maggiore consapevolezza le proprie aspettative e i propri obiettivi, imparando a regolarli meglio sulle proprie reali capacità e sul momento che stanno vivendo», prosegue l’esperto. «Un buon lavoro di definizione degli obiettivi – il cosiddetto goal setting – richiede prima di tutto una conoscenza realistica di sé: bisogna sapere cosa si è in grado di fare, riconoscere i propri limiti, accoglierli e accettarli, individuare i momenti più adatti per esprimere una prestazione coerente con le proprie capacità. Quando questo processo viene trascurato o affrontato in modo superficiale, le aspettative risultano distorte. E così, molti finiscono per pretendere da se stessi risultati non allineati al proprio potenziale reale in quel preciso momento, con il rischio di alimentare frustrazione e insoddisfazione».



















































Come per le diete: chi ci riesce e chi no

Come per le diete la parte più difficile di un programma di allenamento, che sia guidato da un coach o creato per proprio conto o in compagnia di un amico, è mantenerlo nel tempo. Circa la metà delle persone che inizia un programma di esercizio fisico lo interrompe entro sei mesi, si legge su Annals of Behavioral Medicine. Perché alcune persone riescono a raggiungere i propri obiettivi con costanza, mentre altre abbandonano dopo pochi tentativi? «La differenza non dipende solo dalla forza di volontà, ma da un insieme di fattori: la determinazione, la capacità di porsi traguardi realistici, la curiosità di mettersi alla prova, ma anche il modo in cui ciascuno si pone rispetto all’impegno e i premi di ritorno che percepisce nel raggiungimento di quel traguardo», prosegue lo psicologo dello sport.

Adesione consapevole

«Molto conta anche come viene proposto un percorso. L’adesione a un programma di allenamento, come nel caso di una dieta, è spesso legata alla persona che lo suggerisce: un medico, un amico, un preparatore fisico. In questi casi si parla di compliance, cioè dell’accettazione dell’indicazione da parte di colui a cui ci siamo rivolti. Ma quando la proposta è troppo perentoria o percepita quasi impositiva o non sufficientemente condivisa può subentrare una forma di ribellione, anche inconsapevole, che porta all’interruzione. Ecco perché, più che di compliance, sarebbe utile parlare di concordance: un’adesione consapevole, un accordo tra chi propone e chi riceve la proposta. Nell’allenamento fisico significa costruire insieme tempi, obiettivi e modalità di lavoro. A differenza della compliance, la concordance richiede la partecipazione attiva di entrambi i soggetti. Un approccio che non può essere affidato interamente a un’app, priva di empatia, passione e della capacità di comprendere davvero i benefici e le difficoltà della persona» spiega l’esperto.

Lo studio

Eppure, una ricerca, appena pubblicata su BMJ Open, condotta su 125 adulti tra i 40 e i 75 anni, diagnosticati con diabete di tipo 2, ha dimostrato che l’uso di dispositivi indossabili come lo smartwatch può aumentare in modo significativo l’aderenza all’attività fisica. Tutti i partecipanti hanno ricevuto un piano di attività personalizzato della durata di sei mesi, co-progettato con un esperto di esercizio fisico, con lo scopo di incrementare a poco a poco l’attività fisica moderata-intensa fino a raggiungere i 150 minuti settimanali, oltre a uno stile di vita più attivo. Il supporto è stato fornito a distanza tramite telefonate o videochiamate.
Metà del campione è stata assegnata casualmente a un programma che includeva l’uso dello smartwatch con sensori di movimento e frequenza cardiaca, un’app per monitorare l’attività, messaggi motivazionali personalizzati e la possibilità di ricevere feedback in tempo reale dal coach. I risultati sono stati significativi: chi ha utilizzato lo smartwatch era 10 volte più propenso a iniziare un programma di esercizio fisico, 7 volte più attivo dopo 6 mesi, e 3 volte più attivo dopo un anno, anche senza più supporto. Al termine del programma, oltre il 50% del gruppo con smartwatch raggiungeva i livelli raccomandati di attività, contro il 17% del gruppo di controllo. 
Secondo i ricercatori, benefici simili si possono osservare anche nella popolazione generale. Per esempio, uno studio pubblicato su The Lancet ha rilevato che adulti inattivi, di età compresa tra 45 e 75 anni, che avevano ricevuto un contapassi, un programma di camminata di 12 settimane e un diario dell’attività fisica, hanno aumentato il numero medio di passi giornalieri di circa 660 dopo un anno, rispetto a un gruppo di controllo.

Viverle come un gioco

«L’uso di app dovrebbe essere vissuto come un gioco, come un divertimento, un valore aggiunto, qualcosa di diverso e stimolante da integrare in un percorso – che sia un allenamento fisico o un addestramento tecnico – che già di per sé dovrebbe essere un momento ludico, di piacere, di curiosità e di scoperta di sé. Le app sportive rispondono a un bisogno sempre più trascurato: offrire un feedback strutturato. Nel contesto sportivo, il feedback può arrivare dall’esterno, come quello di un allenatore, oppure nascere da dentro, attraverso sensazioni, emozioni e percezioni del corpo. Entrambi sono fondamentali per apprendere e migliorare. Nelle prime fasi dell’allenamento, il supporto costante delle app può essere utile. Con il tempo, però, è importante che l’individuo impari a fare affidamento anche sul proprio feedback interno, per rafforzare l’autoefficacia e consolidare i risultati. L’ideale? Un uso calibrato delle app che sappia valorizzare progressi e limiti con equilibrio». 
Al di là degli strumenti e dei feedback, quello che davvero fa la differenza nel mantenere un percorso di allenamento è la motivazione. «È un insieme complesso di bisogni, desideri e intenzioni che spinge l’individuo verso una meta e ne orienta il comportamento. Non è soltanto una spinta momentanea, ma un tratto della personalità che predispone a lottare per ottenere un risultato, definendo la misura, l’intensità e la serietà con cui si affronta un impegno», sottolinea Tamorri.

Motivazione

«Ogni comportamento finalizzato nasce da tre elementi fondamentali: il bisogno, l’obiettivo e la motivazione. Ma affinché si traduca in azione concreta, è necessario che la persona attribuisca un senso al proprio impegno: è l’intenzione, il significato profondo, a rendere possibile il passaggio dal desiderio al fare. La motivazione autentica nasce da dentro e proprio per questo può attivarsi solo in un momento preciso e personale: non si può imporre dall’esterno. È un’alleata preziosa nei momenti di difficoltà, ma anche fragile, perché la demotivazione può intervenire in qualsiasi momento e minare l’equilibrio raggiunto. Per questo è fondamentale scegliere obiettivi adeguati: troppo semplici rischiano di annoiare, troppo complessi possono scoraggiare. Soltanto un obiettivo ben calibrato può mantenere viva la motivazione e sostenere l’impegno nel tempo» conclude il medico. 

Il programma: come ottenere i migliori risultati (realistici)

Come, partendo da zero o quasi, si possono ottenere i migliori risultati quando si pratica attività fisica? «La chiave è un piano di allenamento personalizzato, costruito in base all’età, all’eventuale presenza di patologie, al livello di allenamento iniziale e agli obiettivi specifici: che si tratti di migliorare il benessere generale o di raggiungere traguardi in una disciplina sportiva», consiglia Gianfranco Beltrami, specialista in Medicina dello Sport e Cardiologia, vice presidente Federazione Medico Sportiva Italiana. «Si devono allenare in modo equilibrato tutte le capacità fisiche: dalla resistenza alla forza, dalla flessibilità all’equilibrio. Fondamentali sono anche la costanza – con almeno due o tre sedute a settimana – e la gradualità all’aumento dell’intensità, oltre al rispetto dei tempi di recupero tra una sessione e l’altra. A tutto questo va affiancato uno stile di vita sano, con un sonno ristoratore, un’idratazione adeguata e un’alimentazione equilibrata, capace di fornire tutti i nutrienti necessari e, se serve, aiutare a raggiungere il peso forma». 

I benefici (anche per il sistema immunitario)

Accanto a una maggiore motivazione e a un piano ben strutturato, a spingere verso l’attività fisica sono anche i suoi numerosi benefici, documentati dalla letteratura scientifica. «L’esercizio regolare favorisce la salute cardiovascolare: abbassa la pressione arteriosa, riduce i livelli di colesterolo, trigliceridi e glicemia e aumenta il cosiddetto “colesterolo buono” (HDL), contribuendo a diminuire il rischio di diabete, ictus e trombosi», prosegue Beltrami. «A livello muscoloscheletrico, rafforza e tonifica la massa muscolare, contrastando la sarcopenia e l’osteoporosi. Migliora equilibrio e flessibilità, riducendo il rischio di cadute e stimolando la formazione di nuovo tessuto osseo. Un’attività fisica costante, soprattutto aerobica, rafforza anche il sistema immunitario. Sul piano mentale, l’allenamento stimola la produzione di endorfine e altri ormoni naturali che influiscono positivamente su umore, ansia e stress e potenziano attenzione e memoria. Infine, aiuta a mantenere o a ritrovare il peso forma».

Over 40: occorre trovare la giusta dose

Il troppo stroppia. Anche quando si parla di sport. Negli atleti master over 40, dati recenti suggeriscono che un esercizio fisico prolungato, praticato a volumi e intensità molto elevati, possa addirittura accelerare, anziché rallentare, la progressione dell’aterosclerosi coronarica.
«L’eccesso di sforzo comporta una produzione eccessiva di radicali liberi che l’organismo non riesce più a neutralizzare con la propria attività antiossidante», sottolinea Beltrami. «Questo squilibrio favorisce uno stato di infiammazione cronica, con un aumento della rigidità delle arterie e della produzione di sostanze pro-infiammatorie, con effetti potenzialmente negativi sul sistema cardiovascolare. Ecco perché, soprattutto in età adulta e matura, è fondamentale trovare “la giusta dose” di attività fisica: un equilibrio che consenta di ottenere tutti i benefici dell’esercizio senza incorrere in rischi per la salute». 

Farmaci: le «scorciatoie» non aiutano a stare in forma

«La salute non si prescrive. Si costruisce». Così Saverio Stranges, professore ordinario e direttore Dipartimento di Epidemiologia alla Western University in Canada e ospite al 45° Congresso della Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU), mette in guardia dal rischio di medicalizzare la prevenzione. «I farmaci antiobesità possono essere utili, per esempio, nelle forme severe associate a problemi cardiometabolici o quando dieta e cambiamenti di stile di vita non funzionano. La preoccupazione nasce quando il loro uso si estende anche a chi è in sovrappeso, trasformandoli in una scorciatoia che rischia di far dimenticare il ruolo fondamentale dell’attività fisica e dello stile di vita. La sanità pubblica, considerando il contesto socio ambientale in cui si vive, deve puntare sull’efficacia dei piccoli cambiamenti: muoversi di più, sedersi di meno, dormire meglio».

9 novembre 2025