L’ex difensore della Roma si racconta: “Mi rivedo in Mancini, è cattivo e sa impostare. Io razzista? Chi mi conosce sa che non è vero. Capello un duro, Zeman guardava oltre, Lucescu maestro di vita”
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27 novembre 2025 (modifica il 28 novembre 2025 | 15:42) – MILANO
A Roma lo chiamavano Terminator perché in campo non era uno che evitava lo scontro, anzi. Ma Antonio Carlos Zago è stato molto più di un difensore “cattivo”. Nella capitale ha giocato cinque stagioni e vinto da protagonista lo scudetto del 2001 collezionando anche 37 presenze con la Seleçao. Poi una carriera in giro per il mondo tra Turchia, Giappone, Spagna e Brasile prima di diventare allenatore. In questi giorni Zago è tornato a Roma prima di fare ritorno per San Paolo. Ma con una promessa: “In Italia torno appena posso, è la mia seconda casa”.
Sono passati 25 anni dall’ultimo scudetto. Può essere la volta buona per il quarto?
“Ogni anno mi auguro sia la volta buona, è passato troppo tempo. Ma penso che sia giusto sognare quest’anno. Ora Gasperini deve restare in vetta fino a dicembre poi con 2-3 rinforzi l’obiettivo è alla portata anche perché non vedo una padrona del campionato. È tutto molto livellato”.

La sua Roma invece quando ha capito che era arrivato il momento giusto per vincere?
“Quando è arrivato Batistuta si era capito che stava cambiando qualcosa. Forse Parma-Roma vinta in rimonta nel girone d’andata è stata un po’ la svolta, ma in realtà già prima dell’inizio del campionato sentivamo di poter fare qualcosa di grande. Erano arrivati anche Samuel ed Emerson, Totti era in crescita continua, c’erano campioni come Aldair, Cafu, Candela o Montella. E poi c’era stato quel brutto episodio…”
“Eh, lo scudetto della Lazio dell’anno prima. Non lo avevamo digerito, volevamo subito far tornare il sorriso ai nostri tifosi. Quello ci ha dato una spinta in più”.

A distanza di 26 anni ci racconta bene cosa è successo con Simeone nel derby?
“Lui provocava e se la stava prendendo con Marcos Assunçao. Io per natura correvo sempre a difendere i compagni, è nato un litigio e ho fatto una cosa che non mi appartiene. So che i tifosi ancora ricordano quello sputo come un ricordo bello, ma per me non è così”.
“Assolutamente sì, è stato un brutto gesto. All’epoca dissi: lo rifarei, ma oggi non è così anche se l’istinto a volte ti porta a fare cose che non vorresti. Mi è successo altre volte, ma chi mi conosce sa che persona sono”.
Si riferisce all’accusa di razzismo in Brasile nel 2006?
“In quel momento ero fuori di me, non pensavo quello che dicevo. Ho chiesto scusa più volte, figurati se sono razzista. I miei migliori amici sono Aldair, Cafu e Cesar Sampaio”.
Lei era istintivo ma aveva anche una capacità di impostazione non comune per un difensore, si rivede in qualche calciatore di oggi?
“Sto vedendo una crescita di questo tipo in Mancini. Ha la cattiveria giusta e sa anche giocare molto bene il pallone. Spero possa crescere ancora, perché oltre a essere un bel difensore può diventare un grande capitano per la Roma”.

In quella serie A c’erano tanti campioni. Quale è stato quello che l’ha fatta arrabbiare di più?
“Li facevo arrabbiare di più io. Il più duro da da marcare era sicuramente Ronaldo il Fenomeno, ho ancora gli incubi di quel 4-5 all’Olimpico. Era imprendibile. Un altro che ci creava tante preoccupazioni era Shevchenko. Poi noi ne avevamo uno forte altrettanto. Ovviamente sto parlando di Totti”.
A proposito ma è vero che parlava nel sonno e non la faceva dormire?
“Purtroppo è vero! Quando sono arrivato al primo anno mi hanno messo in stanza con lui e per me era un onore. Accettai subito ovviamente. Ma di notte russava e parlava forte. Una volta urlò: ‘Passami la palla, passami la palla’. Io sono andato lì a calmarlo e piano piano ha ripreso il sonno regolare. Ma io non dormivo e volevo riposarmi, così chiesi di cambiare stanza. Dall’anno dopo Totti dormì da solo”.

“Alla Roma nessuno, davvero. Non vedevo l’ora di stare a Trigoria, eravamo un gruppo magnifico. Ci vedevamo anche a cena, ai compleanni, in vacanza. Col Brasile sicuramente quello di non aver vinto il Mondiale. Nel 1994 mi sono infortunato al volto, 4 fratture allo zigomo e mi sono giocato la possibilità. Nel 1998 Zagallo decise di non chiamarmi mentre nel 2002 avevo perso mio papà e ho attraversato un momento difficile”.
La Roma per 5 anni, poi ha girato il mondo. Come mai non è mai rimasto a lungo in un posto?
“In realtà io volevo giocare a vita con la Roma, non c’è mai stato un posto nel mondo dove mi sono trovato bene come lì. Purtroppo nel 2002 decisero di non rinnovare il contratto, non ho mai capito il motivo. Poi ho imparato tante culture, quella giapponese è una fonte di insegnamento per l’organizzazione che hanno in tutto”.
Zeman, Capello e Lucescu. Ci regala un aggettivo per tutti e tre?
“Zeman era uno che sapeva guardare oltre. Non ho mai visto nessuno allenare la fase offensiva come faceva lui. Capello era un duro, ma anche uno che sapeva come gestire un gruppo con forti individualità. Lucescu è un maestro. Ho lavorato con lui per due anni allo Shakhtar. I giovani che arrivavano soprattutto dal Brasile all’inizio lo temevano, ma lui oltre a insegnare il calcio li educava a vivere. Tutti, e dico tutti, i giocatori che ha allenato ancora oggi gli mandano sempre un messaggio, lo chiamano se hanno problemi”.

Ha allenato tante squadre e anche una Nazionale come la Bolivia. Più facile fare il giocatore o l’allenatore?
“Non c’è paragone, meglio fare il calciatore. Da allenatore devi gestire 25 persone, ognuno col suo carattere, i suoi tempi, il suo modo di stare in campo. Ogni volta devi trovare la chiave giusta, a volte si riesce altre meno”.
Ora alla guida del Brasile c’è Ancelotti, è l’uomo giusto?
“È il miglior allenatore del mondo. Sono convinto che con lui il Brasile vincerà il mondiale, non so se il prossimo o quello del 2030, ma nessuno più di lui può riuscirci. La Seleçao sta vivendo un momento di crisi così come l’Italia che deve a tutti i costi qualificarsi al Mondiale”.
Ha qualche dubbio dopo la partita persa con la Norvegia?
“Quello che da ex difensore e tifoso dell’Italia mi sorprende è la mancata capacità di proteggere il risultato. Gli azzurri sono famosi da decenni per questo, non capisco cosa sia cambiato. Non si tratta di mancanza di talento ma di un cambiamento di mentalità”.
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