di
Filippo Mazzarella

Il 24 dicembre 1925 viene presentato a Mosca il secondo lungometraggio del regista, che da noi in Italia arrivò solo nel 1960

Il 24 dicembre 1925 viene presentato a Mosca La corazzata Potëmkin/Bronenosец «Potëmkin», secondo lungometraggio (dopo Sciopero/Stačka, dell’anno precedente) di Sergej Ėjzenštejn, maestro del cinema sovietico che per primo concepì il mezzo come strumento politico e arte collettiva.

Intuendo, grazie alla teoria del montaggio in contrapposizione di attrazioni, lo scontro delle immagini come punto nodale della possibilità di produrre senso ed emozione; e influenzando in modo decisivo tutto il cinema a venire. 



















































Per uno strano caso di «ingiustizia culturale», La corazzata Potëmkin (che da noi entrò ufficialmente in circuito solo a partire dal 1960) è uno di quei film che tutti «conoscono» ma che pochi (ormai) hanno visto: un titolo-mito, sineddoche pressoché perfetta di un cinema «importante» che qualcuno ancora teme e che pochi sondano davvero.

Colpa (qui ci starebbe un emoticon sorridente) anche e soprattutto di Paolo Villaggio, che con la celebre invettiva del ragionier Ugo Fantozzi («Per me, La Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!», ma attenzione: il suo senso di rispetto intellettuale lo portò naturalmente a storpiarne il vero titolo), riportò il film alla ribalta nel 1976 incastonandolo nella battuta «liberatoria» che in un solo grido fu capace di dissolvere decenni di reverenza accademica.

Eppure, proprio grazie a quella estrema forma di parodia, il film è parzialmente tornato a circolare nell’immaginario popolare, sopravvivendo come oggetto vivo e rimesso in gioco, dimostrando paradossalmente la sua forza e attualità proprio là dove sembrava essere stato ridotto a feticcio (o bersaglio). 

Ambientate nel giugno del 1905, le vicende seguono i membri dell’equipaggio della corazzata russa del titolo, mentre gli eventi rappresentati (suddivisi in cinque atti) mescolano realtà e finzione, rielaborando (anche fantasiosamente: il massacro di Odessa, per esempio, non si svolse sulla celebre scalinata, ma in stradine secondarie e durante la notte) i reali fatti storici che segnarono l’inizio della rivoluzione russa.

Nel primo atto (Uomini e vermi), i marinai scoprono che la carne loro destinata è marcia; e guidati dal mozzo Vakulenčuk (Aleksandr Antonov), rifiutano il cibo e sfidano le autorità, rischiando l’esecuzione.

Nel secondo, (Dramma sul ponte), il plotone di esecuzione si rifiuta di sparare; ha inizio l’ammutinamento e i marinai prendono il controllo della nave uccidendo alcuni ufficiali.

Nel terzo (Il morto chiama), Vakulenčuk viene ucciso e il suo corpo esposto a Odessa galvanizza la popolazione che lo acclama come eroe e manifesta contro la repressione zarista.

Nel quarto (La scalinata di Odessa), i cosacchi massacrano la folla inerme mentre i marinai della Potëmkin aprono il fuoco dalla nave.

Nell’ultimo (Una contro tutte), la corazzata sfida la flotta zarista ma i marinai si rifiutano di sparare, sostenendo gli ammutinati che illesi sventolano la bandiera rossa. 

Girato per celebrare il ventesimo anniversario della rivoluzione, La corazzata Potëmkin (che per la cronaca dura solo 75 minuti, a fronte della lunghezza «mostruosa» ancora inventata da Villaggio) non è soltanto un’opera di «propaganda» sovietica: è la costruzione di un linguaggio cinematografico nuovo, una sorta di laboratorio percettivo con cui Ėjzenštejn (appena ventiseienne) concepisce innanzitutto, come detto, il montaggio come strumento politico e al contempo sensoriale.

Non più un semplice raccordo narrativo, ma un’arma capace di generare emozione, tensione, pensiero: una teoria che si manifesta in ogni sequenza, culminando in quella celeberrima della scalinata di Odessa, dove la repressione zarista contro la folla diventa una sinfonia di contrappunti.

Non c’è un protagonista unico: è il popolo a essere «personaggio», mentre ogni quadro è pensato quasi come parte di un movimento più grande e sfuggente: la carne dei marinai, il metallo della nave, i corpi che fuggono, cadono, soccombono, l’occhio che guarda (e reagisce).

Quando la madre (Beatrice Vitoldi, una diplomatica di origini salernitane poi attrice naturalizzata sovietica) assiste al precipitare del passeggino sulla scalinata, è come se il cinema scoprisse per la prima volta la sua effettiva capacità di incidere il Tempo e di «attivare» lo spettatore.

Ėjzenštejn evoca e «urla», fors’anche scompostamente: ma il suo è l’abbrivio di una grammatica «nuova» fondata sul conflitto visivo.

Una lezione che è anche il momento d’origine di ogni idea moderna e successiva di regia (da Stanley Kubrick a Brian De Palma, da Orson Welles ad Alfred Hitchcock: la lista è lunga, gli esempi sarebbero infiniti), pienamente riconosciuta solo dopo controversie politiche e censura parziale (in patria) quando il film entrò finalmente (e non senza qualche diffidenza ideologica) nei circuiti europei. 

Rivista oggi, è un’opera che non ha (e non può) aver perso potenza sul piano figurativo: il bianco e nero contrastato della fotografia di Ėduard Tissé (che fu operatore di Ėjzenštejn anche per Sciopero e poi per il non meno memorabile Ottobre/Oktjabr, 1928), i primi piani scolpiti, la composizione geometrica dei quadri e la tensione morale che li attraversa possiedono ancora una forza totalmente materica che il tempo ha nobilitato mettendone in luce la natura duplice di poema visivo e macchina ideologica.

E se la sua retorica può sembrare datata, resta un elemento comunque fondamentale per esplorare il rapporto sempre conflittuale tra massa e autorità (ossia tra libertà e imposizione).

E un esempio di come il cinema si fosse improvvisamente scoperto capace di «fare» la Storia nel momento stesso in cui la rappresentava, rovesciando simbolicamente il Potere con la sola forza di uno sguardo.

24 dicembre 2025 ( modifica il 24 dicembre 2025 | 10:19)