di
Edoardo Rosati

Un progetto italiano, diffuso dal New England Journal of Medice, invece di trattenere i malati in riabilitazione intensiva, propone un modello più dinamico: uscita precoce dall’ospedale e aggancio a un palinsesto di controlli clinici e sessioni di allenamento

Nel panorama della cardiologia italiana spunta una strada innovativa, efficace, sostenibile e profondamente pragmatica, per affrontare la fragilità nei pazienti anziani reduci da un infarto. E ci riesce partendo dai gesti più semplici: una camminata alla «velocità giusta», qualche visita mirata in ambulatorio e la capacità di trasformare i caregiver in alleati. Questo è il messaggio potente che ci arriva da uno studio «made in Italy» appena diffuso dalla prestigiosa tribuna del New England Journal of Medicine. Una ricerca radicata nel servizio sanitario pubblico dell’Emilia-Romagna, coordinata dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara assieme alle AUSL di Bologna e Piacenza, che affronta una sfida pressante: aiutare gli anziani sessantacinquenni e over che hanno vissuto una burrasca cardiaca e faticano a tornare a una vita normale.

Un modello più dinamico

L’obiettivo è offrire una riabilitazione su misura, più vicina ai loro bisogni reali, grazie a un pacchetto di interventi pratici, accessibili e pienamente supportati dal sistema sanitario. Gianluca Campo, professore ordinario di Cardiologia all’ateneo di Ferrara, commenta così: «Questo lavoro collettivo è rivolto ai nuovi pazienti che oggi riempiono le Cardiologie: soggetti anziani colpiti da infarto, vulnerabili e spesso ad alto rischio di subire nuovi ricoveri». La novità? Eccola: invece di trattenere i malati per settimane nei reparti di riabilitazione intensiva, il progetto ha sperimentato un modello più dinamico. Ossia: uscita precoce dall’ospedale e aggancio immediato a un palinsesto di controlli clinici e sessioni di allenamento strutturato.



















































Due iter riabilitativi

Il nuovo approccio, come vedremo, è un programma «ibrido» e «il risultato», commenta ancora Campo, «parla da sé: dopo un anno, i pazienti seguiti hanno visto ridursi del 43% il rischio di sviluppare un evento cardiovascolare, con meno ricoveri per scompenso cardiaco e una migliore qualità della vita». Sono state 512 le persone arruolate, tutte over 65 (sette i Centri emiliano-romagnoli che hanno partecipato all’indagine). Più di un terzo donne: un fatto che conta, perché la fragilità all’indomani di un evento cardiaco è più rilevante nel sesso femminile e richiede quindi un sostegno più attento e assiduo. Reduci da un infarto miocardico, i pazienti hanno intrapreso due iter riabilitativi. Una quota ha seguito gli schemi abituali, la restante è entrata in un programma multidisciplinare che miscelava tre strategie.

Dieta e attività fisica

La prima: il premuroso controllo dei fattori di rischio. La pressione, il colesterolo, la glicemia e l’abolizione della sigaretta vengono accuratamente sorvegliati e aggiustati a ogni visita. Ciascun incontro diventa un’occasione per tarare terapie, motivare il paziente e correggere le abitudini incongrue. Secondo ingrediente: la consulenza dietetica. Non si tratta di regimi impossibili o di drastiche rinunce: il segreto è una dieta personalizzata che introduce piccoli ma mirati miglioramenti. Un dolce può lasciare spazio a un frutto fresco, il pizzico di sale può essere sostituito da profumate erbe aromatiche e il piatto si arricchisce di più legumi e verdure. Cambiamenti semplici, capaci però di incidere davvero sulla salute del nostro cuore. Il terzo pilastro, quello più innovativo, è l’attività fisica pilotata. Non serve mica una palestra.

Percorsi individualizzati

A casa, il paziente solleva manubri leggeri, utili a rinforzare la muscolatura delle braccia e migliorare la forza complessiva; effettua movimenti di estensione delle gambe restando su una sedia (attività adatta anche a chi ha poca autonomia o difficoltà di equilibrio); pratica esercizi di stretching, allungandosi e piegando il busto, per mantenere flessibilità e prevenire rigidità. Le sessioni motorie in ospedale, con la supervisione di un esperto e scandite a intervalli regolari, servono a verificare i progressi e infondere fiducia. Poi il percorso continua nella vita di tutti i giorni: venti minuti di camminata, tre o cinque volte alla settimana. Il movimento diventa, insomma, parte integrante della cura, al pari delle medicine. Cardiologia e medicina dello sport stringono un patto strategico: non più soltanto farmaci e test, ma percorsi individualizzati che pongono l’esercizio fisico al centro della ripresa cardiaca.

Restituire autonomia

Conclusione? I benefici sono risultati netti e misurabili, rispetto alle persone seguite con gli schemi tradizionali. L’intervento così organizzato, soprattutto nella parte legata al moto, non si limita a «curare» l’infarto, ma restituisce autonomia e aspettativa. L’impatto virtuoso è emerso soprattutto sui ricoveri: il programma ha dimezzato la probabilità di finire di nuovo in ospedale per cause cardiovascolari. E il dato non è da poco, se pensiamo al peso che ogni rientro in reparto grava sulla salute del paziente, sul morale della famiglia e, non ultimo, sui costi per la macchina sanitaria.

La camminata «alla velocità giusta»

Giovanni Grazzi, professore ordinario di Medicina dello sport all’Università di Ferrara, interpreta gli esiti positivi del progetto da tre punti di vista: «Come docente universitario, trovo questo risultato paradigmatico: significa che le conoscenze sviluppate all’interno dell’Università non restano chiuse nei laboratori o nelle aule, ma vengono trasferite e condivise con il Servizio sanitario regionale, diventando strumenti concreti a beneficio della comunità. Come medico, è un traguardo rilevante: abbiamo dimostrato che un approccio riabilitativo innovativo può davvero fare la differenza per molte persone anziane colpite da infarto. Con piccoli e realistici incrementi dell’attività fisica quotidiana, è stato possibile ridurre in modo significativo gli eventi avversi. Da cittadino, infine, vedo in questo percorso un segnale incoraggiante: la salute può migliorare attraverso modalità agevoli e sostenibili, che accompagnano il paziente dal letto d’ospedale a una vita più autonoma e soddisfacente, grazie anche a un monitoraggio ambulatoriale regolare».

Modello efficiente ed economico

C’è poi un risvolto suggestivo, in questa tattica riabilitativa, ben espresso dalle parole del dottor Giorgio Chiaranda, responsabile di Medicina dello sport e promozione della salute all’AUSL di Piacenza. «Niente tecnologie sofisticate o strumenti complicati. Tutto parte da un gesto ordinario: riscoprire il piacere di camminare… alla “velocità giusta”. In sei soli incontri ambulatoriali, i pazienti hanno avuto l’occasione di sperimentare brevi passeggiate guidate e cimentarsi con esercizi semplici. È la prova che un modello di intervento “cucito” sul singolo individuo, radicato nella sanità pubblica e concretizzato da équipe multidisciplinari, può risultare insieme efficiente ed economico».

Alleanza con i caregiver

L’altro punto di forza, come dicevamo, è il coinvolgimento della rete affettiva: familiari, caregiver, le persone che ogni giorno stanno accanto al paziente. Il loro compito è sostenere, rassicurare e accompagnare nei progressi, rendendo l’intero andamento curativo meno solitario e maggiormente sereno. In questo modo il paziente si sente più fiducioso e la riabilitazione diventa un tragitto condiviso, costruito su empatia e collaborazione. Lo studio, finanziato dal Ministero della Salute, non è solo un successo clinico: è una testimonianza di come solidarietà, scienza e pragmatismo possano convergere per tutelare i cuori più delicati. È una lezione di come la sanità pubblica possa generare valore reale. Senza rincorrere il complicato, ma valorizzando l’essenziale.

23 settembre 2025