di
Paolo Valentino
In questo conflitto ha molta meno influenza e capacità di pressione
Come una volta quelle sulla morte di Mark Twain, le notizie sul vertice tra Trump e Putin a Budapest sono state grossolanamente esagerate. «Non voglio un summit inutile, non voglio sprecare tempo fin quando non vedo cosa succede», ha detto il presidente americano, imprimendo l’ennesimo cambio di direzione allo yo-yo che sembra scandire i suoi rapporti con il leader russo.
Negli ultimi nove mesi, Trump ha provato tutto e il suo contrario. Ha agitato (ma mai messo in pratica) la minaccia di imporre nuove sanzioni a Mosca e di fornire nuove e più letali armi a Kiev, salvo poi rimangiarsi tutto in cambio di nulla dopo una «telefonata produttiva» con Putin.
Sull’altro fronte, si è prodotto in umiliazioni, pubbliche e private, del povero Zelensky, concrete sospensioni delle forniture all’Ucraina di aiuti militari, che poi ha accettato di vendere agli europei perché le trasferiscano a Kiev. Ma per quanti sforzi abbia fatto, quello in Europa orientale rimane il solo conflitto che non riesce a far cessare, dopo gli otto che rivendica o millanta di aver chiuso: Israele e Iran, Rwanda e Congo, Thailandia e Cambogia, Armenia e Azerbajan, Egitto ed Etiopia, Serbia e Kosovo, India-Pakistan.
Quanto all’ultimo, il più complicato e tragico, quello tra Israele e Hamas, non c’è dubbio che a Gaza Trump abbia realizzato un mezzo miracolo, anche se fragile e tutto da verificare nella sua pratica sostenibilità. Gliel’hanno permesso circostanze eccezionali e irripetibili.
L’attacco di Israele al Qatar, che ha fatto infuriare gli alleati del Golfo, ha fornito a Trump la leva per costringere Netanyahu ad accettare l’accordo. Ma dalla sua egli aveva l’appoggio illimitato che ha sempre assicurato al leader israeliano in qualunque circostanza e su qualunque scelta: dal riconoscimento di Gerusalemme come capitale, alla legalità degli insediamenti nella West Bank, da ultimo alla campagna militare contro Teheran. I forti legami politici ed economici con le nazioni arabe che pesano nello scacchiere mediorientale gli hanno infine dato la forza diplomatica per imporre l’intesa.
Anche in Ucraina, come a Gaza, Trump vede la fine della guerra soprattutto come opportunità commerciale, buoni affari per la sua famiglia e i suoi compagni di merende, oltre che passo decisivo verso un premio Nobel per la Pace, diventato autentica ossessione. Ma in questo caso, a differenza che in Medio Oriente, il tycoon americano ha molta meno influenza e capacità di pressione. Per due ragioni diverse e quasi opposte. La prima è che non è vero che Zelensky non abbia carte in mano. A cominciare dal crescente sostegno degli alleati europei, la troppo vilipesa coalizione dei volenterosi, ora finalmente prossimi alla decisione di usare una parte dei fondi russi congelati dalle sanzioni, per lanciare un prestito all’Ucraina da 140 miliardi di euro, con cui finanziare l’acquisto di armi. Questo consentirebbe a Kiev di sostenere ancora a lungo lo sforzo bellico.
Tra le carte di Zelensky ci sono anche la crescente capacità di Kiev di colpire con i droni le raffinerie e le fabbriche d’armi in Russia e i problemi di reclutamento di Mosca, che nel solo 2025 ha perso 100 mila soldati, dati dell’Economist, cioè, sei volte il totale dei caduti dell’Urss nei dieci anni della guerra in Afghanistan.
La seconda ragione ci porta su un terreno più sdrucciolo, il mistero dei rapporti opachi di Trump con Putin. Cosa rende il presidente americano così sicuro che l’autocrate russo stia vincendo? E perché Putin sa sempre trovare le parole giuste per fargli cambiare parere, fosse pure temporaneamente? Una tesi antica, mai corroborata, sostiene che l’uomo del Cremlino ha sufficiente «kompromat» a sfondo sessuale per «ricattare» the Donald. Un’altra suggerisce di «seguire i soldi» e ricorda che a partire dagli anni Duemila fondi privati russi sono entrati negli affari immobiliari e nelle proprietà del gruppo Trump.
Poi c’è la spiegazione psicologica: Trump adora e probabilmente invidia gli uomini forti, i leader autoritari, i predatori privi di vincoli per dirla con Giuliano da Empoli: nel febbraio 2022, quando Putin invase l’Ucraina, lo definì «un genio». Ma forse bisogna aggiungere anche una spiegazione letteraria: Putin sa aspettare, fedele alla massima di Kutuzov in Guerra e Pace, che definiva «tempo e pazienza» le sue migliori «armi da guerra». Trump invece di pazienza ne ha poca o punta, è iperattivo, ne spara una dietro l’altra, vuole tutto e subito. Ma così facendo non si rende conto che, tra le poche carte in mano a Putin, lui è fra quelle.
23 ottobre 2025 ( modifica il 23 ottobre 2025 | 07:11)
© RIPRODUZIONE RISERVATA