di
Michele Farina
Giulia Chiopris, pediatra di Medici Senza Frontiere in Darfur, racconta la vita e la morte in un punto dimenticato del globo, a quasi un mese dalla caduta di El Fasher. E la storia di Huatin, dei fratelli Mazin e Mohammed, e della madre
L’ultimo messaggio su WhatsApp della pediatra Giulia Chiopris, 34 anni, arriva dall’altro mondo del Darfur la mattina dopo la nostra lunga conversazione, insieme con le promesse foto di Iman e dei figli Mazin, Mohammed e Huatin (lei appena due anni!) di cui mi ha parlato nell’intervista e che mi hanno fatto, lo ammetto, venire da piangere.
Una guerra mai ricordata
Nel nuovo audio la dottoressa di Medici Senza Frontiere aggiunge una storia, fresca di nottata, al quadretto di El Fasher e del conflitto in Sudan, l’ultimo simbolo nefando di una guerra che a rigore non si può neppure definire dimenticata, perché in questi due anni e mezzo non c’è mai stato un momento in cui ce la siamo davvero ricordata.
Forse per un momento sì: El Fasher è la città caduta quasi un mese fa, il 26 ottobre, nelle mani delle Forze di Supporto Rapido (Rsf) dopo 18 mesi di assedio, con i video dei massacri nell’ospedale e le foto satellitari che financo dallo spazio mostravano i cadaveri nelle strade, tanto eclatanti da attirare per qualche ora l’attenzione internazionale. Nell’audio, Chiopris racconta di una donna con quattro figli che, come Iman e i suoi tre piccoli (compresa Huatin), non hanno attirato alcuna attenzione neppure a livello locale, dato che nella baraonda brulicante e desertica dei campi profughi di Tawila, a 50 km da El Fasher, ogni tenda nasconde una tragedia.
«Nascondevamo il cibo sotto terra»
«Questa mamma che abbiamo ricoverato ieri sera», dice la pediatra Giulia nata a Udine, formatasi a Parma e in forza all’ospedale di Cremona, «è arrivata quattro giorni fa da El Fasher con i suoi quattro figli, che già avevano perso il papà all’inizio della guerra. Abbiamo ricoverato subito il più piccolo, affetto da malnutrizione acuta, sommata all’anemia falciforme di cui soffrono tutti. Ma il piccolino aveva un livello di emoglobina tale da richiedere una trasfusione urgente». E la mamma aveva una storia spaventosa da condividere: «Mi ha raccontato che per 45 giorni sono stati imprigionati dalle Rsf in un edificio, per ironia della sorte l’ex sede dell’Ufficio Nazionale Protezione della Salute, con decine di altre donne e adolescenti, dove venivano (e tuttora vengono) violentate dai miliziani, ogni giorno. Lei è riuscita a evadere, facendosi prestare dei soldi e pagando qualcuno: è arrivata qui, non conosce nessuno, ha perso tutto. Mi ha detto che prima di essere imprigionata, quel poco di cibo che avevano lo nascondevano sottoterra».
«A Tawila ora ci sono 900 mila persone. Ed era un villaggio»
Nascondere le briciole come un tesoro: la guerra è così, tra le vittime produce da un lato il «si salvi chi può» e dall’altro una grande solidarietà (le «cucine di comunità» che in questi anni hanno sfamato centinaia di migliaia di persone, in assenza delle grandi agenzie internazionali). Vale anche per i rifugiati nei campi di Tawila, da cui mi parla Giulia Chiopris: «Prima della guerra era poco più di un villaggio, questa primavera la popolazione stimata era circa di 140.000 abitanti, adesso sono 900.000».
La strada, le tende, il freddo
Non è un’oasi, Tawila, un paradiso. Novecentomila scampati/disperati/intrappolati in un’area controllata da un gruppo militare che sulla carta non è coinvolto nella guerra tra esercito regolare e Forze di Supporto Rapido (Rsf) scoppiata nell’aprile 2023. Un posto molto difficile da raggiugere: «Minimo quattro giorni di auto dal confine con il Ciad, che diventano 10-15 per i camion che trasportano farmaci o alimenti». Come vive la gente? «I più fortunati vivono nelle tende recuperate dalle Nazioni Unite. Altre non so bene come chiamarle: sono capanne di arbusti e paglia, o quattro bastoni infilati nella sabbia con un telo di cotone a fare da tetto, gli stessi teli leggeri che avvolgono le donne. E qui di notte fa freddo, 8-9 gradi, quindi ci dobbiamo immaginare i bambini malnutriti che dormono per terra, senza coperte. In una casa di paglia o addirittura di stoffa, con meno di un litro e mezzo d’acqua al giorno per tutte le esigenze: cucinare, bere, lavarsi, con il cibo che è sempre poco, sempre in ritardo. Spesso le mamme ci dicono che non mangiano per nutrire i figli».
Le donne di notte
Dall’inferno puro di El Fasher, dove «hanno patito la fame nutrendosi di mangime per animali», al limbo infernale di Tawila, dove «le condizioni igieniche sono scarsissime e favoriscono le epidemie di colera o quella di morbillo che è ancora in corso».
I più vulnerabili sono i piccoli malnutriti: «Un circolo vizioso, perché l’infezione richiama malnutrizione che richiama infezione». E poi non c’è elettricità, ci sono poche latrine sgarrupate «e quindi da donna mi immagino cosa possa succedere se ho bisogno di uscire dalla mia tenda di notte. Le violenze sessuali non accadono soltanto a El Fasher e durante il tragitto di fuga, ma anche in questi contesti dove i più deboli reduci dall’inferno dovrebbero essere protetti e accuditi».
Circondati
Nella sua esperienza, la pediatra Giulia ha visto altri luoghi con altissima malnutrizione infantile, per esempio in Yemen. «Ma qui è ancora di più, qui siamo… qui siamo circondati».
«Circondati» è una parola che rende bene la situazione di organizzazioni come Medici Senza Frontiere, che si trovano ad affrontare spesso «in solitaria» una montagna di difficoltà mentre il mondo guarda da un’altra parte: crisi vere come l’Ucraina o Gaza e genocidi inesistenti (quello dei bianchi in Sudafrica secondo Trump), problemi seri come il riscaldamento climatico e stucchevoli kermesse diplomatiche (il principe saudita alla Casa Bianca). Giulia ci fa fare un tour virtuale in quella che ancora per un mese sarà la sua casa (poi dovrà tornare al lavoro a Cremona): l’ospedale di Msf a Tawila comprende «la pediatria, la chirurgia, un reparto diciamo di medicina per adulti e il punto nascite dove arrivano tutte le gravidanze complicate e quindi il reparto di neonatologia».
Il fiume dei feriti
La pediatra Giulia è arrivata che mancava un mese alla caduta di El Fasher: «Già due o tre giorni prima del 26 ottobre, il numero di sfollati che avevano bisogno di cure mediche era aumentato drammaticamente, più di 200 al giorno». La fiumana dolente è andata crescendo: «Decine e decine di feriti da arma da fuoco, bombe, torture, le persone che avevano subito violenza, il 75% dei bambini malnutrito e uno su tre in forma grave».
«I miei eroi»
L’ospedale di Tawila circondato da un’umanità indifesa: dentro una quindicina di espatriati, la pediatra di Udine, l’anestetista di Taiwan, il chirurgo svedese a cui da pochi giorni ha dato il cambio l’italiano Paolo Prelazzi, gli addetti alla logistica… E poi il personale locale, tutti i medici e gli infermieri sudanesi «che sono i miei eroi», dice Giulia, «molti sfollati da El Fasher nei mesi scorsi: chi ha perduto persone care, chi ha dovuto lasciare indietro i genitori, gli anziani». Sempre presenti, operativi: «Anche nei giorni particolarmente drammatici della caduta della città, ne ho visti diversi che venivano al lavoro piangendo».
Il palazzo delle ragazze violentate
Cosa trapela dalla città occupata dalle Rsf, eredi dei carnefici del genocidio del 2004, adesso che è di nuovo calato il sipario dell’attenzione internazionale sui vivi e sui morti del Darfur? Almeno per questi ultimi, i morti, sembra si stia muovendo la lenta e sacrosanta macchina della giustizia internazionale, con l’Onu che proclama di voler portare alla sbarra i responsabili dei massacri a El Fasher (e anche i loro sostenitori?). Certo sarebbe il caso di occuparsi anche del presente dei quasi-vivi, di quelli che sopravvivono a stento nei campi come a Tawila, delle cento donne che secondo la testimonianza della mamma che si è confidata con Giulia «ancora restano prigioniere nell’ex Ufficio della Salute, violentate ogni giorno. Le organizzazioni internazionali non sono ancora entrate a El Fasher, difficile per noi avere un quadro della situazione. Certo le violenze durante il tragitto continuano, anche se il numero dei feriti è diminuito».
«Quasi vivi»
I bambini quasi vivi di cui parla la pediatra Giulia non fanno rumore, sdraiati al freddo sotto tende di cotone non si vedono dai satelliti e dunque non destano molto interesse. Ma questa crisi umanitaria, la più grave al mondo secondo l’Onu, è la loro. È anche la nostra? Niente manifestazioni, niente scioperi per il Sudan. Ma sarebbe così improprio boicottare tutti i viaggi negli scintillanti Emirati Arabi Uniti, fino a quando gli emiri continueranno a sostenere e armare le Forze di Supporto Rapido che violentano le donne in Darfur? È così inappropriato, chiedere qui un sostegno tangibile per chi cerca di salvare vite nei campi di Tawila, un grammo alla volta? Immaginatevi decine di migliaia di persone (una piccola fetta dei 12 milioni di sfollati nel Paese), immaginiamole al buio, al freddo, sotto il velo di una tenda, dopo il lusso non scontato e comunque insufficiente di un pugnetto di asida, «che per me che sono di Udine se dovessi spiegare cos’è direi che è una specie di polenta». Quando si gira tra i campi, «si vedono principalmente donne e bambini. E quando anche curi le complicanze acute della malnutrizione, poi sai che quel bambino esce dall’ospedale e torna a vivere nello stesso posto, nelle stesse condizioni. Quindi la probabilità che la sua malnutrizione persista nel tempo, sono molto elevate».
Cosa fare con un bambino che sta morendo di fame
La risposta umanitaria dovrebbe avere i tempi lunghi e le spalle larghe della comunità internazionale, che invece latita. E allora diventa ancora più importante sostenere chi opera in un’emergenza sanitaria che si è fatta cronica. Quando arriva un bambino in condizioni drammatiche, che cosa vuole dire? «Vuole dire che molto spesso ha contratto delle infezioni che il suo sistema immunitario non è in grado di combattere, perché nella malnutrizione è un po’ come se tutti i sistemi del corpo lentamente si spegnessero o comunque fossero in modalità risparmio energetico.
Infezioni che possono essere polmonite, meningite, gastroenterite, malaria. Ecco, per esempio adesso è appena finito il picco della malaria, sappiamo che nei primi 5 anni di vita è molto pericolosa, e quindi in questo caso sicuramente servono antibiotici. Spesso sono bambini che hanno avuto delle perdite, vomito o diarrea per giorni, e non solo non riescono a bere ma la mamma non ha di che idratarli, per cui richiedono liquidi in vena, trasfusione per anemia acuta. E poi ci sono degli alimenti specifici per la malnutrizione grave che sono dei latti oppure il tipico plumpy nut. E ovviamente ossigeno. Ecco, direi che più o meno è questo l’intervento necessario per un bambino che arriva in condizioni drammatiche».
Il killer del morbillo
La pediatria di Msf a Tawila è un ospedale tendato. «C’è la terapia intensiva, un reparto normale e uno specifico per la malnutrizione. In queste settimane siamo arrivati ad avere tre tende piene per ogni reparto: 45, 45 e 90 letti, più la terapia intensiva. Abbiamo una tenda di isolamento per il morbillo. E poi c’è anche la neonatologia, con 20 posti ». Il morbillo da noi in Italia non esiste più, qui invece… «Soprattutto in combinazione con la malnutrizione acuta, il morbillo ha una mortalità molto elevata, anche negli adulti. In generale sono i bambini che stanno molto, molto male, con febbri a 40 tutto il giorno e una brutta infezione a livello del cavo orale, quindi non riescono a bere, non riescono a mangiare. E anche qui, sarebbe tutto prevenibile, se ci fossero i vaccini. Nel nostro piccolo facciamo alcune vaccinazioni, ovviamente nel marasma delle persone che vivono nei campi e arrivano ogni giorno è tutto più difficile».
La storia di Iman
Ogni tenda, una tragedia. Se dovesse sceglierne una, la pediatra Giulia vi parlerebbe della famiglia di Iman, una mamma arrivata all’ospedale con i suoi tre figli una sera tardi, prima della caduta di El Fasher: «Avevano fatto il viaggio un po’ a piedi, un po’ con un asino. Il papà era morto durante i bombardamenti, cercando cibo. E la mamma aveva una gamba con una ferita da arma da fuoco tutta infettata, e quindi non riusciva letteralmente a stare in piedi. Come ha fatto questa donna anche solo a pensare di affrontare il viaggio in quelle condizioni? Una forza inspiegabile che dimostravano anche i figli: il più grande, Mazin, 12 anni, poi Mohammed di 8. E la piccola Huatin di due, che quando è arrivata pesava 5 chili, come un piccolo di cinque mesi in Italia.
Era nelle fasi terminali della malnutrizione, Huatin: temperatura corporea molto bassa, glicemia bassa, frequenza cardiaca bassa. Stava letteralmente morendo. L’abbiamo subito ricoverata e nel giro di pochi giorni, grazie appunto agli interventi di emergenza che ci siamo detti (ossigeno, antibiotici, latti terapeutici) lei è migliorata. Quello che mi ha molto colpito è stato l’atteggiamento dei due fratelli, che si occupavano uno della mamma e l’altro della sorella per tutto il giorno, senza mai lamentarsi, con una cura veramente meravigliosa. Davano tutti i pasti, uno pensava ai latti per Huatin, l’altro accompagnava sempre la mamma in sala operatoria, l’aspettava fuori: una maturità incredibile».
Non c’è lieto fine
La pediatra Giulia non lascia all’interlocutore al telefono il tempo di illudersi. «Non c’è lieto fine, perché purtroppo Iman era anche lei malnutrita ed è morta per le complicanze della ferita. Questo mi ha traumatizzata ancora di più: ma come, proprio quando la piccolina stava meglio, sorrideva e mangiava, e dopo tutto quello che avevano fatto i fratelli, si sono trovati soli al mondo». Altra frustrazione, «perché noi non possiamo trovare una casa a tutti gli orfani di Tawila».
Dove sono adesso i bambini? «Sono in uno dei campi più affollati, con qualcuno che ha deciso di prendersene cura. Un giorno mi hanno riportato Huatin per un controllo, stava bene. E mi sono sentita quasi contenta perché sono riuscita a stampare su un foglio una foto che avevo scattato a tutti e quattro, prima che Iman morisse. Quando il fratello più grande mi ha portato la piccola gliel’ho data ed era molto felice: adesso hanno almeno una foto della loro mamma».
La guerra non è finita
Adesso ce l’avete anche voi, davanti agli occhi, una foto di Iman e dei suoi sguardi spenti, e i sorrisi di Mazin e Mohammed, la testolona della piccola Huatin quando era magra magra: un grumo di vite e di morte perso nell’immenso campo profughi che è diventato il Darfur e l’intero Sudan, laggiù da qualche parte in Africa.
La guerra non è finita, e altre donne ferite e sfinite arriveranno magari una sera a piedi o a dorso di asino con i loro bambini alle porte di un piccolo ospedale come quello che ci ha raccontato la pediatra Giulia Chiopris di Medici Senza Frontiere, ammesso che quell’ospedale esista ancora. Facciamo in modo che continui a esistere.
19 novembre 2025 ( modifica il 19 novembre 2025 | 14:24)
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