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Sindrome dell’intestino corto: il riconoscimento nei Lea e un nuovo farmaco per i bimbi in nutrizione artificiale
SSalute

Sindrome dell’intestino corto: il riconoscimento nei Lea e un nuovo farmaco per i bimbi in nutrizione artificiale

  • 16 Dicembre 2025

di
Elisabetta Zocchi

L’inserimento dell’Insufficienza Intestinale Cronica Benigna nei Lea e un farmaco che aumenta l’assorbimento danno speranza ai piccoli che dipendono da un catetere per alimentarsi e crescere. Uno studio europeo coordinato da un esperto italiano fa il punto

Dopo una lunga battaglia per il riconoscimento dell’Insufficienza Intestinale Cronica Benigna come patologia rara, la novità è il suo inserimento nei Livelli Essenziali di Assistenza con un codice specifico che la sottrae all’invisibilità e all’incertezza di delibere regionali annuali. Ora, grazie alla prospettiva di una presa in carico stabile e uniforme a livello nazionale, si aprono migliori possibilità di cura anche per i pazienti pediatrici affetti da Sindrome dell’Intestino Corto, che comporta malassorbimento e insufficienza intestinale di vario grado con ricorso parziale o totale alla nutrizione artificiale anche per tutta la vita. Uno studio multicentrico europeo appena pubblicato su The Lancet fa il punto su un triennio di impiego in età pediatrica di un farmaco innovativo – Teduglutide – che si è dimostrato utile per aumentare l’assorbimento intestinale e ridurre o azzerare il fabbisogno di parenterale in una quota di casi. 

«Grazie all’intesa della Conferenza Stato-Regioni, il nodo legislativo è sciolto ma occorre consolidare la rete dei centri di riferimento per la definizione dei percorsi diagnostico-terapeutici e dei programmi di formazione. Dal marzo 2025, regione Lombardia ha presentato un documento con 10 linee di indirizzo per un modello territoriale di presa in carico, frutto dell’impegno di un tavolo tecnico di esperti con il sostegno dell’Associazione “Un Filo per la Vita” che riunisce i pazienti e le loro famiglie», spiega Lorenzo Norsa, dirigente medico di Gastroenterologia Pediatrica e Nutrizione dell’Ospedale dei Bambini Vittore Buzzi di Milano che ha coordinato lo studio finanziato dalla Società europea di Gastroenterologia Epatologia e Nutrizione pediatrica e realizzato con la collaborazione del Professor Lorenzo D’Antiga dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e il contributo scientifico del Professor Gianvincenzo Zuccotti dell’Università degli Studi di Milano.



















































Una sindrome rara ma pesante per i piccoli pazienti e le loro famiglie

Quanto incide la sindrome dell’intestino corto sulla popolazione pediatrica? «A oggi non disponiamo di stime precise, perché in questa definizione rientrano condizioni patologiche diverse accomunate dall’insufficienza intestinale cronica benigna successiva alla resezione di un tratto dell’intestino con un conseguente malassorbimento che riduce il potenziale di crescita», dice l’esperto.

Alcune fonti riportano una prevalenza nel nostro Paese di circa 25 casi su 100 mila nati vivi. Si calcola che almeno il 15-20% dei bambini con la sindrome sia destinato alla parenterale per tutta la vita e che le possibili complicanze della procedura (infezioni del flusso sanguigno legate al catetere, perdita dell’accesso venoso centrale, malattie metaboliche del fegato e delle ossa) comportino un rischio di mortalità nel 10-15% dei casi. 
«Si tratta di una condizione evolutiva, che può migliorare nel tempo passando dall’insufficienza alla sufficienza in una quota di casi, mentre in altri il problema si cronicizza con pesanti ripercussioni sulla qualità di vita del piccolo paziente e della sua famiglia», spiega Norsa. 

«Benché sia un’evenienza molto rara, la necessità costante di ricorrere alla nutrizione parenterale domiciliare è estremamente onerosa per il bimbo e drammatica per i genitori, che sono i primi caregiver e che hanno il compito ogni notte o alcune notti alla settimana di attaccare e staccare il catetere venoso centrale, con tutti i rischi connessi: una procedura che, fatti salvi i casi di patologie tumorali, rientra fra le condizioni pediatriche benigne associate al più alto rischio di mortalità – precisa l’esperto -. Nell’ultimo trentennio è comunque aumentato il profilo di sicurezza, grazie ai progressi nella gestione delle cure e nella qualità delle sacche di nutrizione parenterale domiciliare e dei cateteri venosi centrali. Anche per l’enterocolite necrotizzante del prematuro, ora gli esiti sono migliori soprattutto grazie all’impiego di latte materno o umano donato garantito dalla rete consolidata delle banche del latte».

Il nuovo farmaco: chi ne beneficia e in che misura

Autorizzato nel gennaio 2021 dall’Agenzia Italiana del Farmaco per uso pediatrico nei pazienti di un anno di età e oltre affetti da sindrome dell’intestino corto e in condizioni stabili dopo un periodo di adattamento dell’intestino, il Teduglutide è un analogo del GLP-2, un ormone della crescita intestinale che viene a mancare in seguito all’intervento di resezione, ed è prescrivibile dai centri di riferimento regionale con spese interamente a carico del SSN. 

Come ha impattato sulla gestione della sindrome dell’intestino corto e ci sono a oggi altre opzioni terapeutiche, fatto salvo il ricorso alla nutrizione artificiale? «Questo farmaco è l’unico attualmente a disposizione che ha dato prova di incrementare l’assorbimento e quindi di portare in un paziente su 5 allo svezzamento, cioè alla libertà, dalla parenterale – spiega Norsa -. Inoltre, è dimostrata per il 60% dei pazienti una risposta al trattamento misurabile in termini di riduzione uguale o superiore al 20% del ricorso alla parenterale secondo i dati relativi al primo anno di trattamento, mentre quelli sul secondo anno sono in corso di elaborazione. Insomma, l’introduzione del TED ha cambiato radicalmente la presa in carico del paziente con insufficienza intestinale cronica benigna da intestino corto».

Cosa rivela il nuovo studio europeo

Alla luce di questa importante novità sul versante terapeutico, lo studio multicentrico europeo pubblicato su The Lancet è stato condotto su un triennio e ha raccolto dati retrospettivi e prospettici relativi a 104 bambini in media di 6 anni e mezzo affetti dalla sindrome e trattati con TED in 7 paesi europei (Italia, Spagna, Croazia, Germania, Francia, Israele e Portogallo) monitorando l’apporto calorico e il volume di nutrizione artificiale a 3, 6 e 12 mesi dall’inizio della cura e marcatori di tolleranza alla parenterale. Lo scopo dello studio era individuare a 1 anno di terapia dei criteri predittivi di efficacia in termini di svezzamento o di riduzione almeno al 20% della parenterale, per destinare il farmaco in modo mirato a una quota selezionata di pazienti ed eventualmente guidarne l’interruzione precoce nei casi di mancata risposta, per mantenere un rapporto costi-benefici sostenibile.

Concretamente, che cosa è emerso e a chi dovrebbe essere destinato il Teduglutide? «Per quanto riguarda i criteri di candidabilità alla terapia, i fattori predittivi della risposta in termini di aumento dell’assorbimento intestinale e di riduzione del fabbisogno calorico tramite parenterale sono fondamentalmente 3: la maggiore lunghezza residua dell’intestino tenue, il peso corporeo più elevato e l’assenza di malattia epatica con enzimi nella norma. Per il traguardo dello svezzamento completo, cioè della libertà dalla parenterale, i predittori prima del trattamento sono il fabbisogno calorico da parenterale sotto una certa soglia e livelli più elevati di un marcatore sierico della funzionalità intestinale residua, la citrullina. A sei mesi dall’inizio della somministrazione, anche l’aumento di emoglobina e citrullina sono segnali predittivi di efficacia della terapia», spiega l’esperto.

Il timing giusto della terapia per una sindrome evolutiva

Nello studio appena pubblicato sono confluiti tutti i dati «real world», raccolti cioè nel mondo reale anche retrospettivamente a partire dalla commercializzazione del farmaco, per valutarne gli esiti in bambini con un’età media di sei anni e mezzo. Si tratta di piccoli pazienti che hanno subìto la resezione chirurgica di parte dell’intestino, di solito a causa di sindromi (come la malattia di Hirschprung) o malformazioni congenite dell’apparato gastrointestinale (e quindi già presenti in utero, come l’atresia o la stenosi intestinale, la gastroschisi) oppure di problematiche acquisite in fasi precocissime come l’enterocolite necrotizzante del prematuro o il volvolo. L’inizio della terapia farmacologica è stato quindi un po’ rimandato nel tempo in chiave prudenziale, tenendo cioè conto delle potenzialità di “riabilitazione” intestinale spontanea proprie di un organismo in crescita. 

«Di fatto questa terapia è utilizzata negli studi registrativi fin dai primi mesi. È noto, però, che di norma nei primi 4 anni di vita si verifica un processo fisiologico di adattamento e di allungamento intestinale. Ecco perché lo studio europeo è stato condotto nel rispetto di un criterio di massima cautela, cominciando la terapia solo ed esclusivamente al termine di questo periodo finestra, nel corso del quale una quota di bambini può andare incontro allo svezzamento dalla nutrizione parenterale e alla conquista dell’autonomia anche senza farmaco. Inoltre, trattandosi della somministrazione di un analogo ormonale che ha un’emivita breve e che supplisce alla carenza dell’ormone prodotto dalla porzione di intestino rimossa chirurgicamente, sappiamo che il successo dello svezzamento dalla parenterale, benché acquisito quando la cura funziona, rimane condizionato alla somministrazione continuativa del farmaco con un’iniezione quotidiana. 

«A oggi, le esperienze sul campo condotte anche sull’adulto provano che alla sospensione della terapia corrisponde una regressione e, al momento, non c’è una exit strategy dal farmaco. Nel bambino in crescita e nell’età prepuberale, in particolare, è importante tener conto dell’evolversi nel tempo dei fabbisogni nutrizionali in attesa di una stabilizzazione. Intanto, il lavoro sul campo prosegue, vari centri di alta specializzazione sono impegnati nella gestione e follow up di queste terapie e non si possono escludere possibili implementazioni dell’approccio anche con i pazienti più piccoli», chiarisce Lorenzo Norsa.

Punti di forza e limiti delle valutazioni di efficacia

Considerando le potenzialità spontanee di riabilitazione intestinale in corso di crescita, nei casi di risposta parzialmente positiva alla terapia o di pieno successo con la libertà totale dalla parenterale è possibile stabilire in che misura sia merito del farmaco e non, invece, di un adattamento autonomo dell’intestino? «Se la massima cautela è d’obbligo nella valutazione dei risultati di semplice risposta, cioè di una riduzione almeno del 20% dei fabbisogni di parenterale, non può esservi ombra di dubbio sulla quota di casi gestiti dai centri europei di alta specializzazione, come quelli arruolati nello studio, in cui grazie alla terapia si è raggiunto lo svezzamento totale dalla parenterale dopo un periodo di stallo di almeno sei mesi. In questo quadro, il valore aggiunto degli studi ‘real world’ è la loro capacità di restituire uno spaccato di vita reale, in cui rientrano anche le situazioni più gravi perché non sono condizionati dai criteri di selezione o esclusione dei pazienti di solito connessi agli studi registrativi»,  afferma Norsa.

Alla luce di queste considerazioni, qual è l’età sotto la quale non è etico o comunque non opportuno iniziare questa terapia? «Tendenzialmente, direi non ancora sotto l’anno di vita per le conoscenze a oggi disponibili, ma non è escluso che si possano raccogliere dati su una possibile accelerazione dell’adattamento in pazienti molto piccoli. I criteri discriminanti per la candidabilità sono comunque il ricorso alla nutrizione parenterale e la condizione accertata di stallo dei suoi fabbisogni», spiega Norsa.

Prospettive future della ricerca

«Il problema principale a oggi rimane la carenza di evidenze scientifiche solide, trattandosi di una sindrome connessa a patologie molto rare – afferma Lorenzo Norsa -. All’interno del panorama europeo, l’Ospedale dei Bambini Vittore Buzzi di Milano, in cui lavoro, è un centro di ricerca attivo nella promozione di iniziative volte all’individuazione degli indicatori predittivi di uno svezzamento autonomo dalla nutrizione parenterale, che rappresenta ovviamente uno dei principali obiettivi nella gestione clinica di questi pazienti. Inoltre, è essenziale continuare a sorvegliare gli esiti della terapia a lungo termine e riconoscere le eventuali opportunità di applicazione anche in altri contesti. Una terza direttrice di ricerca riguarda le possibili alternative farmacologiche con un’emivita un po’ più lunga che superi la necessità delle iniezioni con frequenza quotidiana anche se l’eventuale disagio attuale di questa cura risulta irrisorio, se raffrontato all’impatto sulla qualità di vita della nutrizione parenterale».

A oggi, cosa si sa degli eventi avversi e di eventuali strascichi della terapia in prospettiva? «La registrazione degli eventi avversi in carico all’azienda produttrice non ne ha rilevati altri, rispetto a quelli segnalati nell’ambito della popolazione pediatrica trattata. In un numero ridotto di casi, è stata riscontrata la formazione di polipi dell’intestino tenue, peraltro mai di natura maligna, che richiedono un monitoraggio specifico, a partire dalla colonscopia prima dell’inizio del trattamento per escludere condizioni pregresse e la ricerca del sangue occulto fecale secondo un preciso calendario di controlli», puntualizza Norsa.

Dopo l’aggiornamento dei LEA uno scenario aperto

Per la natura stessa della sindrome, che comporta insufficienza intestinale di vario grado e conseguente malassorbimento dovuto a cause patologiche diverse, nel nostro Paese si è creata negli anni una situazione di grave disagio per i pazienti “orfani” di un riconoscimento del loro problema come malattia rara o come esenzione, oltre a un inaccettabile squilibrio a livello territoriale.

«Basti pensare che l’assistenza sanitaria continuativa gratuita era garantita a livello pediatrico solo nella quota di casi legati a malattie congenite, ma non – per esempio – nell’enterocolite necrotizzante del prematuro che non ha alcun riconoscimento. Inoltre, i pazienti pediatrici affetti da queste problematiche non beneficiavano più di esenzione al termine dell’assistenza del SSN fino all’età soglia dei 6 anni o al massimo dei 14, come avviene nel caso di Regione Lombardia», rileva Lorenzo Norsa. 

«Per questo sono scese in campo le associazioni dei pazienti e delle loro famiglie, fortemente determinate a chiedere il riconoscimento della sindrome come malattia rara, analogamente a quanto accade in altri Paesi del mondo. In quest’ambito va segnalato l’impegno pionieristico di due regioni virtuose – Valle d’Aosta e Piemonte – che l’avevano già approvato in extra Lea in maniera preventiva. A oggi, comunque, la situazione è in divenire sul piano attuativo e sono ancora pochi i centri prescrittori di farmaco sul territorio nazionale, tra cui figurano l’Ospedale Bambino Gesù di Roma e il Gaslini di Genova. In Lombardia spiccano le esperienze dell’Ospedale dei Bambini Vittore Buzzi di Milano e dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, che hanno infatti contribuito con la loro casistica allo studio multicentrico europeo pubblicato su The Lancet», conclude Norsa.

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15 dicembre 2025

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