di
Jacopo Strapparava

La Val di rabbi, remota ma viva, ha scelto di difendere il suo paesaggio e la comunità: niente serre e pali di cemento, turismo contingentato e antiche consortèle che ancora governano boschi e pascoli. Il modello che ha attirato tante persone che ora vogliono trasferirsi qui

Ricordate la storia dei paesini spopolati? Dove ci si rifà casa con l’aiuto della Provincia? È andata come doveva andare. I contributi hanno fatto gola a molti. Finora — c’è stata una prima finestra per fare domanda dal 19 maggio al 30 giugno, ce ne sarà un’altra dal 14 novembre al 31 dicembre — le richieste arrivate sono 291. E ben 30 hanno puntato sulla Val di Rabbi. «Siamo contenti: vuol dire che c’è fermento — commenta il sindaco Lorenzo Cicolini —Di quelle 30 richieste, due terzi sono di gente di qui».

La storia del paese

È una delle più remote del Trentino, la Val di Rabbi, e non sorprende poi tanto che sia finita nella lista delle aree meritevoli di contributi. Fu una delle ultime a essere strappata alla natura. Leggenda vuole che i primi abitanti fossero servi della gleba dei castellani di Caldés e Samoclévo, ribellatisi dopo secoli di soprusi: pare che il fantasma del Grótol — sgherro dei conti di Caldés, ucciso presso Piazzolla — fosse rimasto per anni a terrorizzare la gente, agitando le catene e facendo rotolare massi sulle case, finché un esorcista non lo confinò al Dos de la Cros, nella valle del Saent. I rabbiesi erano malgari, casari, pastori. Nei tempi di siccità si andava a prender l’acqua nella Val d’Ultimo, oltre il crinale dei monti. Ogni anno, all’arrivo dei primi freddi, gli uomini lasciavano le loro case e emigravano verso il Veneto, il Bresciano, il Milanese, a volte anche fino in Piemonte. Facevano i raseghini, cioè i segantini: spaccavano le ciapére, cioè i ceppi, e tagliavano squadrini, cioè il legno squadrato. Durante l’Ottocento, quando l’Austria costruì le sue ferrovie, intere brigate di operai della valle posavano i quartoni, cioè le traversine, in tutta la Mitteleuropa. Pare fossero abilissimi. E che, tra loro, dicessero: «Polento duro, formai de taro, l’è quei che da forz a la manaro. Polenta dura e formaggio di tara danno forza alla mannaia» (a Rabbi, nel dialetto d’un tempo, le parole femminili finivano con la «o»).



















































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L’inizio dello spopolamento

Con l’arrivo della modernità lo stile di vita tradizionale finì, e la popolazione crollò. La valle, che tra gli anni ‘30 e gli anni ‘50 contava tra i 2.200 e i 2.500 abitanti, nel giro di pochi decenni perse il 40% della sua gente. Nel 1991 gli abitanti erano meno di 1.478. Da allora, ti spiegano lassù, c’è il normale decremento demografico comune a tutta Italia, acuito dal fatto che gli unici immigrati visti negli ultimi tempi da quelle parti erano operai siciliani chiamati a posare la fibra ottica, che dopo la trasferta non hanno certo piantato le tende sulle sponde del Rabbies. «In ogni caso non si può parlare di abbandono», spiega il sindaco Cicolini. Nel 2023 in tutta la Val di Sole sono nati un centinaio di bambini, e 19 erano di Rabbi. Anche il fatto che la località, quando è uscito il bando della Provincia abbia ricevuto così tante domande, è un certificato di buona salute. La comunità è viva. Ci sono il gruppo Alpini, la sezione della Sat, lo Sci Club, il gruppo giovani. Ora stanno organizzando la festa per il ritorno delle vacche dall’alpeggio, in programma per il 20 settembre.

La vicinanza con la Val di Sole

Oggi che le distanze si sono accorciate. La Val di Rabbi è a un tiro di schioppo dalla fiorente economia della Val di Sole, che riesce ad assorbirne gran parte della forza lavoro. Non si ha più la sensazione di vivere fuori dal mondo, e oggi anche il capoluogo, volendo, è raggiungibile in un’ora di auto. Punto secondo, ma non meno importante: la valle non ha impianti di risalita. Non ha vissuto l’impetuoso sviluppo turistico e urbanistico del Tonale, di Peio e della zona di Dimaro. A differenza delle altre diramazioni laterali della Val di Sole, insomma, è riuscita a mantenere un paesaggio alpestre incontaminato.

Il no alle mele

«Dietro tutto questo c’è anche una scelta politica», dice Cicolini. Da anni nel piano regolatore del Comune i rabbiesi hanno inserito il divieto categorico di costruire serre, reti e pali di cemento: volevano evitare di ritrovarsi invasi dai filari di mele, che avrebbero distrutto l’uniformità dei prati, sicché, ora, per capire quando inizia la valle basta guardare dove finiscono le Golden Delicious. «Abbiamo anche deciso», per evitare masse ingestibili di gitanti, «di contingentare l’ingresso dei turisti nel Parco dello Stelvio». A Fonti di Rabbi c’è un bello stop. Il sindaco all’inizio voleva metterlo più a valle, ma insomma, a volte bisogna accettare i compromessi.

Orsi, affittacamere e formaggio

Certo, qualche preoccupazione latente, anche qui, c’è. I robusti cestini anti-orso, a due passi dalle case, testimoniano il passaggio di qualche plantigrado. Delle 36 malghe in attività ai primi degli anni Settanta, ne rimangono una decina. «Ora c’è pure questa faccenda del latte crudo — aggiunge il sindaco — Capisco le paure, ma i nostri casari il formaggio lo hanno sempre fatto così. Non si può chiedere a un piccolo produttore di avere gli stessi livelli di controllo di una grande industria. E bisogna mettersi in testa una cosa: il 100% di sicurezza, in montagna, non esiste».
Detto questo, la vita scorre tutto sommato tranquilla. La stagione estiva si sta chiudendo. Negli ultimi anni, oltre all’Hotel Miramonti e all’Hotel Terme, sono spuntati come funghi affittacamere, residence e b&b, perlopiù vecchi masi riconvertiti, ristrutturati e affittati a peso d’oro (la vox populi vuole che nelle ultime settimane siano venuti qui in villeggiatura un arabo degli Emirati e un americano del Kentucky). Nella chiesa di San Bernardo — fine anni 50, un bel Dante sulla facciata — si stanno per celebrare due matrimoni. Su tutte le bacheche, un avviso convoca l’assemblea di una consortèla, e qui s’impone una parentesi.

Le consortèle

«Qui a Rabbi il bosco e il monte non sono né dello Stato, né del Comune né della Provincia: abbiamo le consortèle!», ti dicono. Di cosa si tratta? Formalmente, sono associazioni private, proprietarie di beni collettivi. Ma è difficile addentrarsi in questa misteriosa reminiscenza di diritto feudale per un foresto, figurarsi per un zitadin. Basti sapere che le consortèle a Rabbi sono 23. Che in alcune ci si entra di diritto, solo per il fatto di essere residenti. Che in altre il diritto è cedibile, come per le quote di capitale di una S.p.A. Che i soci, ogni volta, si ritrovano e, il governo della natura, se lo fanno da soli. «Se c’è un sentiero da mettere a posto, un muretto da riparare, della legna da vendere, decidiamo noi!». Non a caso Geremia Gios, professore a Trento, e sindaco di Vallarsa, dice sempre: «Per salvare l’Appennino sono stati fatti 3 mila provvedimenti. Ma potranno anche farne 5 mila, solo mettendo in gioco gli interessi della gente si potrà fermare lo spopolamento».

Una ricetta che, prima di salutare, il sindaco Cicolini delinea con tre parole: «Servizi, qualità della vita, sviluppo economico». I contributi della Provincia vanno in questa direzione. «Una cosa, però, la voglio sottolineare. Staremo molto attenti a chi imbroglia».


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7 settembre 2025 ( modifica il 8 settembre 2025 | 08:16)