di
Elena Meli

L’intelligenza artificiale in un prossimo futuro potrebbe aiutare a stimare in maniera più precisa il grado di rischio cardiovascolare, ma già oggi si può fare moltissimo. Per sapere come stanno cuore e vasi, e calcolare le probabilità di ammalarsi basta partire da un colloquio con il proprio medico di famiglia e sottoporsi a un semplice esame del sangue

Quanti anni ha, davvero, il tuo cuore? Saperlo potrebbe essere assai utile per valutare il rischio di eventi cardiovascolari come infarti e ictus, che tuttora sono la prima causa di morte nel nostro Paese, e potrebbe essere semplice come far analizzare un elettrocardiogramma standard a un’intelligenza artificiale allenata a questo scopo. È emerso durante l’ultimo congresso dell’European Heart Rhythm Association, grazie a uno studio per cui sono stati «dati in pasto» all’intelligenza artificiale oltre mezzo milione di esami registrati nell’arco di quindici anni.

L’algoritmo è stato in grado di stimare l’età biologica dei cuori analizzati e, grazie a questa, valutarne il rischio di mortalità, infarti e ictus che vi sarebbe appunto strettamente correlato. È intuitivo che un cinquantenne con il cuore di un settantenne abbia un pericolo di andare incontro a problemi cardiovascolari più alto, rispetto a un coetaneo con il cuore di un trentenne. In realtà, sembrerebbe che possa bastare un’età biologica cardiaca di appena sette anni superiore a quella anagrafica per veder impennare la probabilità di eventi fino al 92 per cento, mentre, al contrario, un cuore di sette anni più «giovanile» di quanto recita la carta d’identità la abbasserebbe ben del 27 per cento. L’intelligenza artificiale in un prossimo futuro potrebbe perciò aiutare a stimare in maniera più precisa il proprio grado di rischio cardiovascolare, ma già oggi si può fare moltissimo, con esami poco invasivi e spesso pure molto economici, per sapere se il cuore è in pericolo e quindi se è il caso di correre ai ripari per proteggerlo.



















































Chiedere al medico di famiglia

Non serve scomodare chissà quali tecnologie avanzate per capire se sia il caso di preoccuparsi delle condizioni del proprio cuore, né occorre conoscerne di preciso l’età biologica, anche se potrebbe essere un elemento in più per comprenderne il quadro generale di salute: per sapere come stanno cuore e vasi bastano esami tutto sommato semplici, e tanto per cominciare servirebbe un colloquio con il medico di famiglia in cui calcolare il rischio cardiovascolare aiutandosi con la «carta del rischio» del Progetto Cuore realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità.
Questo strumento, utile dai 40 anni in poi, aiuta a stimare la probabilità di un infarto e simili nei successivi 10 anni, per decidere se e come sia necessario intervenire.

La pressione

La carta del rischio tiene conto di sei elementi ovvero sesso, età, abitudine al fumo e tre parametri che devono essere misurati dal medico, nel caso della pressione arteriosa, o attraverso l’esame del sangue, nel caso della valutazione di colesterolo e glicemia. È proprio con l’analisi di alcuni parametri del sangue che possiamo iniziare a farci un’idea realistica delle condizioni del cuore, come spiega Massimo Grimaldi, presidente dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (Anmco): «Il primo tassello fondamentale è l’assetto lipidico. Occorre, guardare non tanto i trigliceridi, che dipendono molto dalla dieta, quanto soprattutto il colesterolo totale e specialmente le sue “frazioni”, ovvero i diversi tipi di colesterolo in circolo, il cosiddetto colesterolo “buono” Hdl e quello “cattivo” Ldl che dipende molto dal metabolismo e dal fegato, e solo per il 10 per cento da quel che mangiamo».

Colesterolo

Il colesterolo Ldl si accumula silenziosamente sulla parete delle arterie, formando placche che si ispessiscono e possono ostacolare il flusso del sangue oppure provocando trombi che, staccandosi, possono causare infarti e ictus. Per questo il colesterolo alto non è più considerato un fattore di rischio ma una causa diretta di eventi cardiovascolari e per questo, come specifica Grimaldi, «non bisogna iniziare a controllarlo a 55 anni od oltre, perché potrebbe aver già fatto danni; intorno ai 35, 40 anni al massimo occorre cominciare a monitorarlo e se è necessario a intervenire per mantenerlo entro i limiti (che non sono uguali per tutti ma devono essere valutati anche tenendo conto del profilo di rischio cardiovascolare complessivo, ndr): prima si riporta a valori normali, meglio è». 

La lipoproteina (a)

Lo hanno ribadito anche le ultime linee guida della Società Europea di Cardiologia, che oggi indicano la necessità di «allargare» il quadro del profilo lipidico misurando la lipoproteina (a), un colesterolo «nuovo» che non è determinato da dieta o metabolismo ma dall’assetto genetico e che funziona come un potente amplificatore del rischio cardiovascolare: almeno una volta tutti dovremmo misurarla, perché se è elevata (oltre 50 milligrammi per decilitro di sangue) in attesa di farmaci specifici diventa ancora più importante tenere sotto controllo tutti gli altri elementi di pericolo, colesterolo e non solo.

La glicemia

«L’altro parametro da conoscere è la glicemia, perché la presenza di diabete di tipo 2 incrementa molto la probabilità di eventi cardiovascolari», dice Grimaldi. «Per un miglior quadro complessivo può essere utile misurare poi la proteina C reattiva, che è un’indicatore di infiammazione e, se elevata, aumenta il rischio di trombi pericolosi; lo stesso vale per il fibrinogeno, un marcatore di infiammazione e attivazione della coagulazione che è opportuno monitorare. Di routine poi occorre misurare la creatininemia, per capire se i reni funzionano a dovere: i reni sono lo specchio della salute dell’organismo, se hanno problemi il rischio cardiovascolare cresce tantissimo. Altri marcatori più nuovi che stanno entrando nella pratica clinica per monitorare la salute del cuore sono poi NT-proBNP (frammento di una proteina prodotta dal cuore sotto stress, ndr), un indicatore di scompenso cardiaco e di un sovraccarico dell’organo, e la troponina ad alta sensibilità, un marcatore di sofferenza e danno cardiaco che può aiutare a fare diagnosi molto precoci di problemi al cuore».

Ecg «classico»

Aggiunge Pasquale Perrone Filardi, presidente della Società Italiana di Cardiologia (Sic): «Nel valutare il rischio cardiovascolare e le condizioni del cuore, inoltre, è opportuno tenere presenti fattori che, a parità di tutti gli altri parametri, amplificano il pericolo come l’obesità e le apnee ostruttive notturne o, nelle donne, il diabete in gravidanza, la preeclampsia o la menopausa precoce. Accanto agli esami del sangue e alla valutazione dei fattori di rischio “al contorno”, poi, è utile sottoporsi all’elettrocardiogramma o Ecg». Il test valuta l’attività elettrica del cuore e può dare informazioni su molte malattie, per questo come sottolinea Grimaldi, «andrebbe eseguito la prima volta fra i sei e gli otto anni, per valutare la presenza di eventuali patologie su base genetica che possano aumentare il rischio di morte per aritmie, e poi entro i trent’anni, perché può cogliere altre malattie pericolose come la sindrome di Brugada».
«È incluso nelle visite di medicina del lavoro o in quelle sportive, per cui molti per fortuna vi si sottopongono; oltre i 70 anni è importante poi per scoprire la fibrillazione atriale, che riguarda circa uno su dieci e, se non viene diagnosticata e trattata, aumenta molto il rischio di ictus. L’Ecg classico non può valutare la funzione contrattile del cuore o i danni alle valvole, ma oggi attraverso l’intelligenza artificiale sembra possibile ampliare le capacità diagnostiche di questo tradizionale esame».

Ecg sotto sforzo

Quando fare invece l’Ecg sotto sforzo, in cui si misura l’attività elettrica cardiaca mentre si corre su un tapis roulant o si pedala su una cyclette? «Va sempre eseguito in caso di attività sportiva agonistica e se si sospettano problemi cardiaci», risponde Grimaldi, «perché l’aumento del battito indotto dallo sforzo porta a galla più facilmente aritmie, disturbi della conduzione elettrica e una sofferenza dovuta a un ridotto apporto di sangue al cuore (per esempio se ci sono patologie delle coronarie che potrebbero portare a un infarto, ndr)». L’Ecg sotto sforzo è perciò da considerare un esame già di secondo livello, come conferma Perrone Filardi: «Per capire in quale “casella” di rischio ci collochiamo bastano i test standard, se ci sono sospetti diagnostici o sintomi, come affanno o dolore quando il battito accelera, è bene sottoporsi all’Ecg sotto sforzo o anche all’ecocardiogramma.
«Questi due esami andrebbero senz’altro utilizzati più di quanto si faccia oggi, ma non avrebbe senso offrirli indiscriminatamente a tutti perché potrebbero dare troppi falsi positivi».

Screening​

Considerando che le malattie di cuore e vasi sono tuttora la principale causa di morte in Italia, avrebbe senso pensare a uno screening più strutturato, un po’ come accade per alcuni tipi di tumore? «Certo, perché quando la malattia c’è il danno è fatto: l’unica strategia possibile è prevenire e diagnosticare in tempo», risponde Grimaldi. «Lo scompenso cardiaco per esempio ha una mortalità del 50 per cento a cinque anni dalla diagnosi, ben più di molti tumori per cui esistono screening e che sono anche meno frequenti. Il “carico” delle malattie cardiovascolari si fa sentire soprattutto dopo i 65 anni: ipotizzando un programma con pochi test facili ed economici fra i 50 e i 65 anni potremmo ammalarci di meno e vivere meglio e più a lungo».

La sindrome cardio-renale-metabolica

Quasi nessuno conosce la sindrome cardio-renale-metabolica, ma negli Stati Uniti il 90% della popolazione ha almeno uno fra gli elementi che la definiscono ovvero obesità, diabete, pressione o colesterolo alto e una ridotta funzione renale. Lo ha dimostrato un’indagine recente dell’American Heart Association, secondo cui appena il 12% dei cittadini ha mai sentito parlare della sindrome cardio-renale-metabolica e il 42% crede che un cuore sano non possa essere danneggiato da disturbi a carico del sistema renale o metabolico. Esiste invece una stretta connessione fra la salute renale e metabolica e quella del cuore: l’infarto o l’ictus possono essere l’evento conclusivo di una «marcia» che può iniziare altrove, con i chili in eccesso o la glicemia fuori controllo, oppure con i reni sotto stress. Tutto è collegato e ciò implica che pure le terapie devono essere «coordinate»: anche per questo a inizio 2026 usciranno le prime linee guida per la gestione della sindrome, che in Italia  si stima riguardi oltre 11 milioni di persone.

La Tac coronarica

 L’intelligenza artificiale potrebbe essere d’auto anche per interpretare meglio la Tac coronarica, usata per valutare se ci sono restringimenti delle coronarie in persone a rischio lieve o moderato: un recente documento di consenso su Nature Reviews Cardiology sottolinea che gli algoritmi potrebbero migliorare la precisione diagnostica del test, che oggi è molto affidabile e offre un imaging raffinato ma va saputo interpretare bene, per esempio se lo si usa per misurare il calcium score, il «punteggio» che indica quanto calcio è presente nelle placche coronariche. Non è infatti sempre vero l’assunto per cui più calcio c’è, più il rischio per il cuore cresce: le placche non calcificate sono spesso meno stabili e quindi più pericolose, quelle ricche di calcio a volte sono più «ferme», specialmente in persone che fanno o hanno fatto molto sport. La valutazione di una Tac coronarica è quindi molto complessa e l’Ai potrebbe dare un utile contributo.

6 dicembre 2025